Mi chiedevo perché nessuno avesse notato quanto stesse lontano, prima dello scatto repentino e impossibile che mi aveva salvato la vita. Un po' preoccupata mi resi conto del motivo: nessun altro si accorgeva come me della presenza di Edward. Nessuno lo guardava con occhi simili ai miei.
Ormai avrei dovuto esserci abituata, e tuttavia non era così. Avevo la sensazione che Edward fosse il genere di persona a cui era impossibile abituarsi.
"Prima o poi capirò", lo avvertii. "Meglio che non ci provi." Era tornato serio. "Perché?" "E se non fossi il supereroe? Se fossi il cattivo?" Sorrise.
Dopotutto, quante lacerazioni può opportare un cuore prima che smetta di battere? Nei giorni precedenti avevo incassato colpi mortali, e ciò non mi aveva rafforzzata. Anzi mi sentivo orribilmente fragile, come se bastasse una parola a sbriciolarmi.
Sapevo che era troppo tardi. Sapevo che era morta. Ne ero sicuro perché la sua attrazione era sparita. Non sentivo più alcuna ragione per rimanere lì accanto a lei. Lei non c'era più. Per me quel corpo non esercitava alcuna attrazione. Il bisogno irragionevole di esserle accanto era svanito. O meglio, si era spostato. Come se l'attrazione venisse dalla parte opposta. Dalla porta, oltre le scale. La brama di scappare e non tornare più, mai più, in quel posto.
Mi sentivo intrappolata come in uno di quegli incubi terrificanti in cui, per quanto corri e corri finché i polmoni non ti scoppiano, non sei mai abbastanza veloce. Più cercavo di farmi strada fra la folla impassibile, più le gambe sembravano lente, ma le lancette della grande torre campanaria non accennavano a rallentare. Vigorose, indifferenti e spietate, giravano inesorabilmente verso la fine... la fine di tutto. Però non era un sogno, e nemmeno un incubo in cui correvo per salvare la mia vita: in gioco c'era qualcosa infinitamente più prezioso. Quel giorno, della mia vita m'importava ben poco. [...] Soltanto io ero libera di attraversare di corsa la piazza luminosa e affollata. E non ero abbastanza veloce. [...] Al primo rintocco delle campane, che rimbombavano nel terreno sotto i miei piedi spossati, capii di essere in ritardo, lieta che ad aspettarmi ci fosse un nemico assetato di sangue. Perché, se avessi fallito, avrei rinunciato a qualsiasi desiderio di vivere.
"Okay, allora" disse Jeb ad alta voce, per farsi sentire da tutti. "Funziona così: si vota, e la maggioranza vince. Come al solito, prenderò la decisione che mi pare se non sono d'accordo con la maggioranza perché questa..." "è casa mia" concluse un piccolo coro.
Sbirciai di nuovo verso di lui, e me ne pentii. Mi stava di nuovo squadrando, con gli occhi neri pieni di disprezzo. Mentre mi ritraevo, stretta nella sedia, improvvisamente pensai a quel modo di dire: se gli sguardi potessero uccidere... In quel momento la campana prese a squillare, io sobbalzai ed Edward Cullen si alzò dal suo posto con un movimento fluido - era molto più alto di quanto avessi immaginato - dandomi le spalle, e prima che chiunque altro avesse lasciato la sedia era già fuori dalla classe. Io rimasi pietrificata al mio posto, incredula, a guardarlo. Che cattivo. Non era giusto. Iniziai a raccogliere le mie cose lentamente, cercando di arginare la rabbia che mi aveva presa, per non mettermi a piangere. Per qualche motivo, il mio umore e i miei occhi erano legati a doppio filo. Di solito, quando ero arrabbiata piangevo, una reazione umiliante.