Penso a Livorno, a un vecchio cimitero di vecchi morti; ove a dormir con essi niuno più scende; sempre chiuso; nero d'alti cipressi. Tra i loro tronchi che mai niuno vede, di là dell'erto muro e delle porte ch'hanno obliato i cardini, si crede morta la Morte, anch'essa. Eppure, in un bel dì d'Aprile, sopra quel nero vidi, roseo, fresco, vivo, dal muro sporgere un sottile ramo di pesco. Figlio d'ignoto nòcciolo, d'allora sei tu cresciuto tra gli ignoti morti? Ed ora invidii i mandorli che indora l'alba negli orti? Od i cipressi, gracile e selvaggio, dimenticàti, col tuo riso allieti, tu trovatello in un eremitaggio d'anacoreti?
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi, che pare dimenticato, tra il vapor leggero. E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca, e tu non torni ancora al tuo paese! Quando partisti, come son rimasta! Come l'aratro in mezzo alla maggese.
- Donde, o vecchina, queste violette serene come un lontanar di monti nel puro occaso? Poi che il gelo ha strette tutte le fonti; il gelo brucia dalle stelle, o nonna, ogni foglia, ogni radica, ogni zolla. - - Tiepida, sappi, lungo la Corsonna geme una polla. Là noi sciacquiamo il candido bucato nell'onda calda in mezzo a nevi e brine; e il poggio è pieno di viole, e il prato di pratelline. - Ah!... ma, poeta, non ancor nel pio tuo cuore è l'onda che discioglie il gelo? Non è la polla, calda nell'oblio freddo del cielo? Ché sempre, se ti agghiaccia la sventura, se l'odio altrui ti spoglia e ti desola, spunta, al tepor dell'anima tua pura, qualche viola.
O vecchio bosco pieno d'albatrelli, che sai di funghi e spiri la malìa, cui tutto io già scampanellare udìa di cicale invisibili e d'uccelli: in te vivono i fauni ridarelli ch'hanno le sussurranti aure in balìa; vive la ninfa, e i passi lenti spia, bionda tra le interrotte ombre i capelli. Di ninfe albeggia in mezzo alla ramaglia or sì or no, che se il desìo le vinca, l'occhio alcuna ne attinge, e il sol le bacia. Dileguano; e pur viva è la boscaglia, viva sempre nè fior della pervinca e nelle grandi ciocche dell'acacia.
Odoravano i fior di vitalba per via, le ginestre nel greto; aliavano prima dell'alba le rondini nell'uliveto. Aliavano mute con volo nero, agile, di pipistrello; e tuttora gemea l'assiolo, che già spincionava il fringuello. Tra i pinastri era l'alba che i rivi mirava discendere giù: guizzò un raggio, soffiò su gli ulivi; virb... disse una rondine; e fu giorno: un giorno di pace e lavoro, che l'uomo mieteva il suo grano, e per tutto nel cielo sonoro saliva un cantare lontano.
Si muove il cielo, tacito e lontano: la terra dorme, e non la vuol destare; dormono l'acque, i monti, le brughiere. Ma no, ché sente sospirare il mare, gemere sente le capanne nere: v'è dentro un bimbo che non può dormire: piange; e le stelle passano pian piano.
È la sera: piano piano passa il prete paziente, salutando della mano ciò che vede e ciò che sente. Tutti e tutto il buon piovano benedice santamente: anche il loglio, là, nel grano; qua, nè fiori, anche il serpente. Ogni ramo, ogni uccellino sì del bosco e sì del tetto, nel passare ha benedetto: anche il falco, anche il falchetto nero in mezzo al ciel turchino, anche il corvo, anche il becchino, poverino, che lassù nel cimitero raspa raspa il giorno intiero.
Rivedo i luoghi dove un giorno ho pianto: un sorriso mi sembra ora quel pianto. Rivedo i luoghi dove ho già sorriso... Oh! Come lacrimoso quel sorriso!
Si ferma, e già fischia, ed insieme, tra il ferreo strepito del treno, si sente una squilla che geme, là da un paesello sereno, paesello lungo la via: Ave Maria... Un poco, tra l'ansia crescente della nera vaporiera, l'addio della sera si sente seguire come una preghiera, seguire il treno che s'avvia: Ave Maria... E, come se voglia e non voglia, il treno nel partir vacilla: quel suono ci chiama alla soglia e alla lampada che brilla, nella casa, ch'è una badia: Ave Maria... Il padre a quel suono rincasa facendo un passo ad ogni tocco; e subito all'uscio di casa trova il visino del suo cocco, del più piccino che ci sia... Ave Maria... Si chiude, la casa; e s'appanna d'un tratto il vocerìo che c'è; si chiude, ristringe, accapanna, per parlare tra sé e sé; e saluta la compagnia... Ave Maria... O, tinta d'un lieve rossore, casina che sorridi al sole! Per noi c'è la notte con l'ore lunghe lunghe, con l'ore sole, con l'ore di malinconia... Ave Maria... Il treno già vola e ci porta sbuffando l'alito di fuoco; e ancora nell'aria più smorta ci giunge quell'addio più fioco, dal paese che fugge via: Ave Maria... E cessa. Ma uno che vuole velar gli occhi, pensar lontano, tra gemiti e strilli e parole, tra il frastuono or tremolo or piano, ode il suono che non s'oblia: Ave Maria... Con l'uomo che va nella notte, tra gli aspri urli, i lunghi racconti del treno che corre per grotte di monti, sopra lenti ponti, vien nell'ombrìa la voce pia: Ave Maria...
Noi mentre il mondo va per la sua strada, noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l'affanno, e perché vada, e perché lento vada. Tal, quando passa il grave carro avanti del casolare, che il rozzon normanno stampa il suolo con zoccoli sonanti, sbuca il can dalla fratta, come il vento; lo precorre, rincorre; uggiola, abbaia. Il carro è dilungato lento lento. Il cane torna sternutando all'aia.