Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Dalla spiaggia

C'è sopra il mare tutto abbonacciato
il tremolare quasi d'una maglia:
in fondo in fondo un ermo colonnato,
nivee colonne d'un candor che abbaglia:
una rovina bianca e solitaria,
là dove azzurra è l'acqua come l'aria:
il mare nella calma dell'estate
ne canta tra le sue larghe sorsate.
O bianco tempio che credei vedere
nel chiaro giorno, dove sei vanito?
Due barche stanno immobilmente nere,
due barche in panna in mezzo all'infinito.
E le due barche sembrano due bare
smarrite in mezzo all'infinito mare;
e piano il mare scivola alla riva
e ne sospira nella calma estiva.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Il fiume

    Fiume che là specchiasti un casolare
    cò suoi rossi garofani, qua mura
    d'erme castella, e tremula verzura;
    eccoti giunto al fragoroso mare:
    ed ecco i flutti verso te balzare
    su dall'interminabile pianura,
    in larghe file; e nella riva oscura
    questa si frange, e quella in alto appare;
    tituba e croscia. E là, donde tu lieto,
    di sasso in sasso, al piè d'una betulla,
    sgorghi sonoro tra le brevi sponde;
    a un po' d'auretta scricchiola il canneto,
    fruscia il castagno, e forse una fanciulla
    sogna a quell'ombre, al mormorìo dell'onde.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Canzone d'Aprile

      Fantasma tu giungi,
      tu parti mistero.
      Venisti, o di lungi?
      Ché lega già il pero,
      fiorisce il cotogno
      laggiù.
      Di cincie e fringuelli
      risuona la ripa.
      Sei tu tra gli ornelli,
      sei tu tra la stipa?
      Ombra! Anima! Sogno!
      Sei tu...?
      Ogni anno a te grido
      con palpito nuovo.
      Tu giungi: sorrido;
      tu parti: mi trovo
      due lagrime amare
      di più.
      Quest'anno... oh! Quest'anno,
      la gioia vien teco:
      già l'odo, o m'inganno,
      quell'eco dell'eco;
      già t'odo cantare
      Cu... cu.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Anniversario (1889)

        Sono più di trent'anni e, di queste ore,
        mamma, tu con dolor m'hai partorito;
        ed il mio nuovo piccolo vagito
        t'addolorava più del tuo dolore.
        Poi tra il dolore sempre ed il timore,
        o dolce madre, m'hai di te nutrito:
        e quando fui del corpo tuo vestito,
        quand'ebbi nel mio cuor tutto il tuo cuore,
        allor sei morta; e son vent'anni: un giorno!
        E già gli occhi materni io penso a vuoto;
        e il caro viso già mi si scolora;
        mamma, e più non ti so. Ma nel soggiorno
        freddo dè morti, nel tuo sogno immoto,
        tu m'accarezzi i riccioli d'allora.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Nevicata

          Nevica: l'aria brulica di bianco;
          la terra è bianca; neve sopra neve:
          gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco:
          cade del bianco con un tonfo lieve.
          E le ventate soffiano di schianto
          e per le vie mulina la bufera;
          passano bimbi: un balbettìo di pianto;
          passa una madre: passa una preghiera.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Il poeta solitario

            O dolce usignolo che ascolto
            (non sai dove), in questa gran pace
            cantare cantare tra il folto,
            là, dei sanguini e delle acace;
            t'ho presa - perdona, usignolo -
            una dolce nota, sol una,
            ch'io canto tra me, solo solo,
            nella sera, al lume di luna.
            E pare una tremula bolla
            tra l'odore acuto del fieno,
            un molle gorgoglio di polla,
            un lontano fischio di treno...
            Chi passa, al morire del giorno,
            ch'ode un fischio lungo laggiù
            riprende nel cuore il ritorno
            verso quello che non è più.
            Si trova al nativo villaggio,
            vi ritrova quello che c'era:
            l'odore di mesi-di-maggio
            buon odor di rose e di cera.
            Ne ronzano le litanie,
            come l'api intorno una culla:
            ci sono due voci sì pie!
            Di sua madre e d'una fanciulla.
            Poi fatto silenzio, pian piano,
            nella nota mia, che t'ho presa,
            risente squillare il lontano
            campanello della sua chiesa.
            Riprende l'antica preghiera,
            ch'ora ora non ha perché;
            si trova con quello che c'era,
            ch'ora ora ora non c'è...
            Chi sono? Non chiederlo. Io piango,
            ma di notte, perch'ho vergogna.
            O alato, io qui vivo nel fango.
            Sono un gramo rospo che sogna.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Fanciullo Mendico (Canti di Castelvecchio)

              Ho nel cuore la mesta parola
              d'un bimbo ch'all'uscio mi viene.
              Una lagrima sparsi, una sola,
              per tante sue povere pene;
              e pur quella pensai che vanisse
              negl'ispidi riccioli ignota:
              egli alzò le pupille sue fisse,
              sentendosi molle la gota.
              E io, quasi chiedendo perdono,
              gli tersi la stilla smarrita,
              con un bacio, e ponevo il mio dono
              tra quelle sue povere dita.
              Ed allora ne intesi nel cuore
              la voce che ancora vi sta:
              Non li voglio: non voglio, signore,
              che scemi le vostra pietà.
              E quand'egli già fuor del cancello
              riprese il solingo sentiero,
              io sentii, che, il suo grave fardello,
              godeva a portarselo intiero:
              e chiamava sua madre, che sorta
              pareva da nebbie lontane,
              a vederlo; poi ch'erano, morta
              lei, morta! Ma lui senza pane.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Temporale

                È mezzodì. Rintomba.
                Tacciono le cicale
                nelle stridule seccie.
                E chiaro un tuon rimbomba
                dopo uno stanco, uguale,
                rotolare di breccie.
                Rondini ad ali aperte
                fanno echeggiar la loggia
                dè lor piccoli scoppi.
                Già, dopo l'afa inerte,
                fanno rumor di pioggia
                le fogline dei pioppi.
                Un tuon sgretola l'aria.
                Sembra venuto sera.
                Picchia ogni anta su l'anta.
                Serrano. Solitaria
                s'ode una capinera,
                là, che canta... che canta...
                E l'acqua cade, a grosse
                goccie, poi giù a torrenti,
                sopra i fumidi campi.
                S'è sfatto il cielo: a scosse
                v'entrano urlando i venti
                e vi sbisciano i lampi.
                Cresce in un gran sussulto
                l'acqua, dopo ogni rotto
                schianto ch'aspro diroccia;
                mentre, col suo singulto
                trepido, passa sotto
                l'acquazzone una chioccia.
                Appena tace il tuono,
                che quando al fin già pare,
                fa tremare ogni vetro,
                tra il vento e l'acqua, buono,
                s'ode quel croccolare
                cò suoi pigolìi dietro.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Il cuore del cipresso

                  O cipresso, che solo e nero stacchi
                  dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto
                  irto di cardi e stridulo di biacchi:

                  in te sovente, al tempo delle more,
                  odono i bimbi un pispillìo secreto,
                  come d'un nido che ti sogni in cuore.

                  L'ultima cova. Tu canti sommesso
                  mentre s'allunga l'ombra taciturna
                  nel tristo campo: quasi, ermo cipresso,
                  ella ricerchi tra què bronchi un'urna.

                  Più brevi i giorni,
                  e l'ombra ogni dì meno
                  s'indugia e cerca, irrequieta, al sole;
                  e il sole è freddo e pallido il sereno.

                  L'ombra, ogni sera prima, entra nell'ombra:
                  nell'ombra ove le stelle errano sole.
                  E il rovo arrossa e con le spine ingombra

                  tutti i sentieri, e cadono già roggie
                  le foglie intorno (indifferente oscilla
                  l'ermo cipresso), e già le prime pioggie
                  fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.

                  E il tuo nido? Il tuo nido?... Ulula forte
                  il vento e t'urta e ti percuote a lungo:
                  tu sorgi, e resti; simile alla Morte.

                  E il tuo cuore? Il tuo cuore?... Orrida trebbia
                  l'acqua i miei vetri, e là ti vedo lungo,
                  di nebbia nera tra la grigia nebbia.

                  E il tuo sogno? La terra ecco scompare:
                  la neve, muta a guisa del pensiero,
                  cade. Tra il bianco e tacito franare
                  tu stai, gigante immobilmente nero.
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