Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Il Santuario

Come un'arca d'aromi oltremarini,
il santuario, a mezzo la scogliera,
esala ancora l'inno e la preghiera
tra i lunghi intercolunnii dè pini;
e trema ancor dè palpiti divini
che l'hanno scosso nella dolce sera,
quando dalla grand'abside severa
uscìa l'incenso in fiocchi cilestrini.
S'incurva in una luminosa arcata
il ciel sovr'esso: alle colline estreme
il Carro è fermo e spia l'ombra che sale.
Sale con l'ombra il suon d'una cascata
che grave nel silenzio sacro geme
con un sospiro eternamente uguale.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Nella macchia

    Errai nell'oblio della valle
    tra ciuffi di stipe fiorite,
    tra quercie rigonfie di galle;

    errai nella macchia più sola,
    per dove tra foglie marcite
    spuntava l'azzurra viola;

    errai per i botri solinghi:
    la cincia vedeva dai pini:
    sbuffava i suoi piccoli ringhi
    argentini.

    Io siedo invisibile e solo
    tra monti e foreste: la sera
    non freme d'un grido, d'un volo.

    Io siedo invisibile e fosco;
    ma un cantico di capinera
    si leva dal tacito bosco.

    E il cantico all'ombre segrete
    per dove invisibile io siedo,
    con voce di flauto ripete,
    Io ti vedo!
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Mezzogiorno

      L'osteria della pergola è in faccende:
      piena è di grida, di brusìo, di sordi
      tonfi; il camin fumante a tratti splende.
      Sulla soglia, tra il nembo degli odori
      pingui, un mendico brontola: Altri tordi
      c'era una volta, e altri cacciatori.
      Dice, e il cor s'è beato. Mezzogiorno
      dal villaggio a rintocchi lenti squilla;
      e dai remoti campanili intorno
      un'ondata di riso empie la villa.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Il lauro

        Nell'orto, a Massa — o blocchi di turchese,
        alpi Apuane! o lunghi intagli azzurri
        nel celestino, all'orlo del paese!

        un odorato e lucido verziere
        pieno di frulli, pieno di sussurri,
        pieno dè flauti delle capinere.

        Nell'aie acuta la magnolia odora,
        lustra l'arancio popolato d'oro —
        io, quando al Belvedere era l'aurora,
        venivo al piede d'uno snello alloro.

        Sorgeva presso il vecchio muro, presso
        il vecchio busto d'un imperatore,
        col tronco svelto come di cipresso.

        Slanciato avanti, sopra il muro, al sole
        dava la chioma. Intorno era un odore,
        sottil, di vecchio, e forse di viole.

        Io sognava: una corsa luna il puro
        Frigido, l'oro di capelli sparsi,
        una fanciulla... Ancora al vecchio muro,
        tremava il lauro che parea slanciarsi.

        Un'alba — si sentìa di due fringuelli
        chiaro il francesco mio: la capinera
        già desta squittinìa di tra i piselli —

        tu più non c'eri, o vergine fugace:
        netto il pedale era tagliato: v'era
        quel vecchio odore e quella vecchia pace;

        il lauro, no. Sarchiava li vicino
        Fiore, un ragazzo pieno di bontà.
        Gli domandai del lauro; e Fiore, chino
        sopra il sarchiello: Faceva ombra, sa!

        E m'accennavi un campo glauco, o Fiore,
        di cavolo cappuccio e cavolfiore.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Allora

          Allora... in un tempo assai lunge
          felice fui molto; non ora:
          ma quanta dolcezza mi giunge
          da tanta dolcezza d'allora!
          Quell'anno! Per anni che poi
          fuggirono, che fuggiranno,
          non puoi, mio pensiero, non puoi,
          portare con te, che quell'anno!
          Un giorno fu quello, ch'è senza
          compagno, ch'è senza ritorno;
          la vita fu vana parvenza
          sì prima sì dopo quel giorno!
          Un punto!... così passeggero,
          che in vero passò non raggiunto,
          ma bello così, che molto ero
          felice, felice, quel punto!
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            L'agrifoglio

            Sul, limitare, tra la casa e 1'orto
            dove son brulli gli alberi, te voglio,
            che vi verdeggi dopo ch'io sia morto,
            sempre, agrifoglio.

            Lauro spinoso t'ha chiamato il volgo,
            che sempre verde t'ammirò sul monte:
            oh! Cola il sangue se un tuo ramo avvolgo
            alla mia fronte!

            Tu devi, o lauro, cingere l'esangue
            fronte dei morti! E nella nebbia pigra
            alle tue bacche del color di sangue,
            venga chi migra,

            tordo, frosone, zigolo muciatto,
            presso la casa ove né suona il tardo
            passo del vecchio. E vengavi d'appiatto
            l'uomo lombardo,

            e del tuo duro legno, alla sua guisa
            foggi cucchiari e mestole; il cucchiare
            con cui la mamma imbocca il bimbo, assisa
            sul limitare.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Scalpitio

              Si sente un galoppo lontano
              (è la...? ),
              che viene, che corre nel piano
              con tremula rapidità.
              Un piano deserto, infinito;
              tutto ampio, tutt'arido, eguale:
              qualche ombra d'uccello smarrito,
              che scivola simile a strale:
              non altro. Essi fuggono via
              da qualche remoto sfacelo;
              ma quale, ma dove egli sia,
              non sa né la terra né il cielo.
              Si sente un galoppo lontano
              più forte,
              che viene, che corre nel piano:
              la Morte! La Morte! La Morte!
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Sera Festiva

                O mamma, o mammina, hai stirato
                la nuova camicia di lino?
                Non c'era laggiù tra il bucato,
                sul bossolo o sul biancospino.
                Su gli occhi tu tieni le mani...
                Perché? Non lo sai che domani...?
                din don dan, din don dan.
                Si parlano i bianchi villaggi
                cantando in un lume di rosa:
                dell'ombra dè monti selvaggi
                si sente una romba festosa.
                Tu tieni a gli orecchi le mani...
                tu piangi; ed è festa domani...
                din don dan, din don dan.
                Tu pensi... Oh! Ricordo: la pieve...
                quanti anni ora sono? Una sera...
                il bimbo era freddo, di neve;
                il bimbo era bianco, di cera:
                allora sonò la campana
                (perché non pareva lontana? )
                din don dan, din don dan.
                Sonavano a festa, come ora,
                per l'angiolo; il nuovo angioletto
                nel cielo volava a quell'ora;
                ma tu lo volevi al tuo petto,
                con noi, nella piccola zana:
                gridavi; e lassù la campana...
                din don dan, din don dan.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  La cucitrice

                  L'alba per la valle nera
                  sparpagliò le greggi bianche:
                  tornano ora nella sera
                  e s'arrampicano stanche;
                  una stella le conduce.
                  Torna via dalla maestra
                  la covata, e passa lenta:
                  c'è del biondo alla finestra
                  tra un basilico e una menta:
                  è Maria che cuce e cuce.
                  Per che cuci e per che cosa?
                  Un lenzuolo? Un bianco velo?
                  Tutto il cielo è color rosa,
                  rosa e oro, e tutto il cielo
                  sulla testa le riluce.
                  Alza gli occhi dal lavoro:
                  una lagrima? Un sorriso?
                  Sotto il cielo rosa e oro,
                  chini gli occhi, chino il viso,
                  ella cuce, cuce, cuce.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Rio Salto

                    Lo so: non era nella valle fonda
                    suon che s'udìa di palafreni andanti:
                    era l'acqua che giù dalle stillanti
                    tegole a furia percotea la gronda.
                    Pur via e via per l'infinita sponda
                    passar vedevo i cavalieri erranti;
                    scorgevo le corazze luccicanti,
                    scorgevo l'ombra galoppar sull'onda.
                    Cessato il vento poi, non di galoppi
                    il suono udivo, nè vedea tremando
                    fughe remote al dubitoso lume;
                    ma poi solo vedevo, amici pioppi!
                    Brusivano soave tentennando
                    lungo la sponda del mio dolce fiume.
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