Scritta da: Silvana Stremiz
in Poesie (Poesie d'Autore)
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Le mie mani
aprono la cortina del tuo essere
ti vestono con altra nudità
scoprono i corpi del tuo corpo
le mie mani
inventano un altro corpo al tuo corpo.
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Le mie mani
aprono la cortina del tuo essere
ti vestono con altra nudità
scoprono i corpi del tuo corpo
le mie mani
inventano un altro corpo al tuo corpo.
È un ampio armadio scolpito; l'antica scura
quercia ha preso una buon'aria di vecchia gente;
l'armadio è aperto, e scioglie dentro l'ombratura
come onda di vin vecchio, un profumo attraente.
È un miscuglio di vecchie anticaglie, stipato
di panni odorosi e gialli, di straccetti
di donne e fanciulli, di appassiti merletti,
di scialli di nonna col grifo pitturato;
- Qui trovi ciocche di capelli bianche e bionde,
i ritratti, i medaglioni, la frutta e i fiori
secchi il cui profumo insieme si confonde.
- Ne sai di storie, o mia credenza d'ore morte!
Vorresti dirci i tuoi racconti, e fai rumori
se lente s'aprono le grandi nere porte.
Nella sala da pranzo, bruna, profumata
di frutta e di vernice, come chi non pensa
raccolsi un piatto di non so quale portata
belga, e sprofondai nella mia sedia immensa.
Mangiando, udivo il pendolo, - calmo e giulivo.
La cucina s'aprì in mezzo a una sbuffata.
- Entrò la serva, e chissà per quale motivo,
lo scialle sfatto, con malizia pettinata,
ecco il ditino tremante pose e ripose
sulla sua guancia, velluto di pesche-rose
bianche, e con smorfie del suo labbro bambino
per mio agio, i piatti mi riordinò vicino
- poi, - ma certo per prendersi un bacio, - così
mi soffiò: "Ho una freddo alla guancia, senti qui... "
La mia bohème (Fantasia)
I pugni nelle tasche rotte, me ne andavo
con il mio pastrano diventato ideale;
sotto il cielo andavo, o Musa, a te solidale;
oh! Là, là! Quanti splendidi amori sognavo!
La sola braca aveva un largo buco. - In corsa
sgranavo rime, Puccetto sognante. E l'Orsa
Maggiore era la mia locanda. - Lassù
le stelle in cielo avevano un dolce fru fru;
le ascoltavo, seduto ai lati delle strade,
nelle sere del buon settembre ove rugiade
mi gocciavano in fronte un vino di vigore;
e, rimando in mezzo ai tenebrosi fantastici,
come fossero lire, tiravo gli elastici
delle mie scarpe ferite, un piede sul cuore!
Io, come un angelo seduto dal barbiere,
vivo stringendo uno scanalato bicchiere,
collo e ipogastrio curvi, una " Gambier" tra i denti,
sotto i cieli gonfi di vele trasparenti.
In me mille sogni, come caldi escrementi
di vecchia colombaia, fan dolci bruciature;
e il mio tenero cuore è un alburno, a momenti,
che il giovane oro insanguina di linfe oscure.
E, quando con cura ho ringoiato ogni sogno,
mi volto, bevuti più di trenta bicchieri,
e mi raccolgo a mollare l'acre bisogno:
dolce come il Dio del cedro e degli issòpi,
io piscio altissimo e lontano contro i neri
cieli - approvato dai grandi eliotropi.
Andremo, d'inverno, in un vagoncino rosa
con tanti cuscini blu.
Sarà dolce. Un nido di baci folli posa
nei cantucci molli. Tu
chiuderai gli occhi, per non vedere dai vetri
smorfiare l'ombre delle sere,
la plebaglia di démoni e di lupi tetri,
mostruosità arcigne e nere.
Poi la tua guancia graffiare si sentirà...
un bacetto, un ragno matto, ti correrà
sul collo... Intanto
tu mi dirai: "Cerca! ", chinando a me la testa
- prenderemo tempo a scovare quella bestia
- che viaggia così tanto...
La mattina alle quattro, d'estate,
il sonno d'amore dura ancora.
Sotto i boschetti l'alba deodora
le sere festeggiate.
Ma laggiù negli immensi cantieri
al sole dell'Esperidi, là
scamiciati, ecco i carpentieri
si agitano già.
Tranquilli, in quei deserti muschiati,
preparano il tavolato fino
dove ride il ricco cittadino
sotto cieli affrescati.
Per questi Operai affascinanti
a un re di Babilonia assoggettati,
ah! Lascia un po', Venere, gli Amanti
dai cuori incoronati.
Regina dei Pastori!
Porta acquavite ai lavoratori,
la loro forza vieni a ristorare
prima del bagno meridiano, in mare.
Lontano da uccelli, da greggi, da paesane,
io bevevo, rannicchiato in una brughiera,
cinta da una selva di noccioli leggera,
in verdi e tiepide foschie meridiane.
Che potevo bere in quella giovane Oïsa,
muti olmi, cielo coperto, erba senza fiori.
Che spillavo alla mia fiasca di colocasia?
Un liquore d'oro, insulso, che dà sudori.
Cattiva insegna d'osteria sarei stato.
Poi il temporale mutò il cielo, fino a sera.
Furon laghi, pertiche, stazioni, una nera
regione, e nella notte blu fu un colonnato.
L'acqua dei boschi moriva alla verginale
sabbia, e il vento, dal cielo, ghiacciava acquitrini...
Io, pescatore d'oro e di gusci marini,
dire che non pensai di bere, come tale!
Se non temprasse il foco del mio core
l'umor, che verso per gli occhi sì spesso,
io avrei visto già di morte il messo,
e l'alma ad ubidirla uscita fore;
perché la speme omai cede al timore,
ed ogni cosa mia soggiace ad esso,
poi che si vede a mille segni espresso
che chi può farlo vuole il mio dolore.
Dunque, s'io vivo, è mercé del mio pianto;
s'io moro, è colpa de le crude voglie
del mio signor, in vista dolce tanto.
Ei mi legò sì ch'altri non mi scioglie,
ei vuol aver de la mia morte il vanto.
O poco chiare ed onorate spoglie!
Beate luci, or se mi fate guerra
voi, donde può venir sol la mia pace;
se 'l viver mio a voi, luci alme, spiace
e la mia vita in voi solo si serra;
mi converrà (e chi nol crede s'erra)
o viver sempre in guerra aspra e tenace,
o tosto tosto l'anima fugace,
lasciato il corpo, se n'andrà sotterra.
E così rimarrete senza poi
soggetto, ove possiate essercitare
la crudeltade vostra, Amor e voi.
Io ne verrò al fine a guadagnare;
ché, morend'un senza peccati suoi,
felicemente suol al ciel poggiare.