È una fine giornata come tutti ne abbiamo conosciute: le cose sono al loro posto, il mondo potrebbe rovesciarsi, il quadro, il soggetto, niente cambierebbe aspetto – a meno che, come qui, il figlio di Jacopo, il pittore, non scivoli tra la scena e il pennello e non se ne resti là, con gli occhi grandi aperti sull'angolo più scuro, questa sorda follia che non può accettare né rifiutare: l'indifferenza dei vivi per i vivi – e se interroga il vuoto, è come se cercasse di che riempire la notte e gli occhi di Lazzaro al tempo stesso.
Alto eucalipto e ampia luna. Una stella trasale nell'acqua. Cielo bianco, argentato. Pietre, pietre scorticate fino in cima. Accanto, nel basso fondale, s'udí il secondo, il terzo salto d'un pesce. Immensa, estatica orfanezza – libertà.
Sono in tre attorno alla tavola, l'uno tiene distrattamente una viola sulle ginocchia ma non suona, l'altro con il piatto vuoto sulla tovaglia logora, il terzo è una donna dal corpo bianchissimo, i seni offerti alla luce di questa fine giornata in cui ciascuno aspetta qualche cosa in più che si nega, ostinatamente si nega. Sono in tre attorno alla tavola e tu sei il quarto nell'angolo perso della tela, a raccogliere le briciole sotto la firma illeggibile.
I bambini che s'insinuano tra le nostre parole come un punto e virgola, sanno tutto e si ricordano della nostra fatica di dire la vita che passa e di come l'amore è difficile. Insinuano cantando un dito leggero nella scollatura del mondo che ci copre poi si fermano con la guancia contro l'orecchio del gatto con un viso grave e chiuso così in fretta da farci perdere l'equilibrio, gettarci fuori dal tempo, d'un tratto muti come accanto a un pozzo colmo di parole mentre si arrotonda, vera dei nostri giorni, delle nostre vane parole, la pupilla del gatto.
Cume se fa a parlà de la belessa? La furma che sa dís al fiâ del cör? La vardi e, nel murí, la mia parola la dís dumâ del poch restâ nel mör.
Come si fa a parlare della bellezza? La forma che sa dire al fiato del cuore? La guardo e, nel morire, la mia parola dice soltanto del poco rimasto nel morire.
Non illuderti, ne restano tracce. Un cristallo del desiderio un filo di quel miele. Qui dentro fosti amato, qui amasti e non in sogno. Prenderanno in custodia la stanza vuota – reti e pinze e cartasughe sensitive fibra a fibra l’amore ripescando. Quei gelidi seguaci di Lussuria a perlustrare la vita.
Appare volontà quel che fu caso, un eterno momento, ma l'occhio il naso suggellò veloce e la bocca nel vento ambigua errò per voce che sempre può parlare.
Questo il ritratto e questo è il mare, un rudere che striscia nel suo vecchio calore.
Così dall'ombra mosse una piccola biscia fuggendo il suo colore. Apparvero le fosse dei morti, il grigioverde dei topi e dei soldati.
Ha i minuti contati la morte che perde e moltiplica i piedi. Nel sole che vedi è il sole che langue, il formicaio del sangue.
Traccerò cerchi con ossidiana, segno per segno, seguendo il buio dei verbi quando il giorno sarà l'ultimo giorno in mezzo a bestie golose che con artigli lunari vorranno amare la vita di un solo verso beneficio di bussole indenni sotto colonne d'edera rannuvolate. Sarà così che non trascriveremo il corso di fiumi vivissimi. Resterò nei cerchi sotto nevi avverse e abolirò il mare che m'incendia la matita desolata di questi abissi.
Padre, io a te io inchiodato a te su questo scoglio divino che conosci la tua alba e allacci la tua potenza al fulmine da questo culmine di spasimo io vinto mando a te vincitore di padri la prora disorientata delle mie parole. Concedi a coloro che erano ciechi e a dismisura adesso vedono, rotto il sigillo della fiamma, l'ustione della carezza, il fragore del pugno, ora che sanno il tossico del palmo e delle nocche ed è notte, profonda notte a occidente di ogni immaginare ora che le iridi conoscono le costellazioni del dolore e del piacere; concedi loro di sopportare per ogni ciglio sospeso alle tenebre al tramonto di ogni palpebra sfinita la pronuncia dell'alba e del crepuscolo e il rombo immenso, che sale dall'uomo.