Dal maestoso castello sulle nubi, lesta, s'avvia alla Terra ed estranea al proprio potere, al suo leggiadro arrivo, la rende ancor più bella. Al suo passar, Madre Natura dal sonno si risveglia, inverdendo prati brulli e disseminando delicati boccioli, che testè s'apron, effondendo olezzi e andando ad acquietar e tinteggiar di blu il cielo e i mari sparsi. E di ritorno, con, tra i capelli, un fiore, raccontar deve, Primavera bella, all'amata sorella, che, in segreto al padre suo, l'esile piede posa sullo sconosciuto pianeta, che muta dov'ella si riposa. Succosi frutti, raggi brucianti dell'astro, in ciel, radioso, di campi distese, di spighe dorate, delle quali una afferrare e, tra folta chioma, inserire innanzi risalire e tutto raccontare, gioiosa Estate, al di lei fratello Autunno, che, mesto e incredulo, discende rendendo tutto triste e cupo, ingiallendo foglie e fomentando il vento, ma, altresì, assaggiando castagne e mosto, avanti tornare al proprio posto. "Fratelli menzogneri"... Proclama diafano l'Inverno. "Ognun di voi narra storia a sé, per cui, questa volta, deve toccar a me." Silenzio, intorno, al suo calare al suolo. Bigio il cielo e il sole scompare. Candido e gelido manto copre la Terra, mentre egli, sull'ali del vento, l'esplora senza esitare, ambendo verde prato fiorito, di grano distesa, grappolo d'uva matura e, ancor, dolce mosto saporito. Turbato, al castello occor far ritorno acciocché i fratelli smentire e sul pianeta, assieme, tornare per la verità appurare. Apocalittica impresa che il mondo sconvolge, in un solo momento d'incauto ignorare. "Ogni tre mesi, figli sciagurati, ad alternarvi siete comandati, finanche io, Re Tempo, padre vostro, lo imporrò poiché la Natura, vostra madre, proteggere dovrò!"
Onde favorirsi dell'insorger dell'onda d'intuizione, l'intelletto annaspa nel mare del pensiero, da sé forgiato. Intervallandosi a brevi, placidi ondulii assai meschini, roboanti marosi straripan nel fiume delle contraddizioni, sennonché l'acquoso dolce, mitigando l'amare differenze, redarguisce la sì misera saggezza, ché doni voce alla propria muta coscienza. Affogate alfin le controversie dei figli della mente, ch'attualmente s'atteggian leggiadri danzatori, giungent'in flessuose movenze su punte, novo vento, in essa, appiccia miccia operante la scintilla veritiera. Dell'intuito, il barlume accresce nel rogo d'inclemenza e sol cenere resta del menzognero velo d'incoscienza, intanto che s'apre il sipario del vero.
Nell'oceano dei ricordi, essenzialmente quelli pregni di emozioni, oltre ad altri, in cui l'impulso di odori, sapori, note musicali, riporta alle mente antiche sensazioni, riaffiorano integralmente, onde non essere dimenticati in quanto frammenti di un passato che dà il senso a ciò che eravamo e probabilmente non siamo più... o forse siamo tuttora.
Mettete dei fiori nei vostri e nei nostri cannoni!
Abbandonando il sospiro nel nucleo spirale del vento, trae profondo respiro dal sì glabro petto. Inarcandosi sottostante volta d'orizzonte, fortemente eleva ossute braccia come a un padre, onde squarciarne il velo conclamante insofferenza. S'avesse l'ali, in sogno, palesate, anziché notarsi implume, indubbiamente l'avrebbe già raggiunto oppur nell'attimo presente si spingerebbe fin a esso, rifuggendo l'abominio d'una guerra dissacrante il bene. Sconfinato nel predominante male, sebbene ripudiato amante, attraverso matrice del pensiero, l'urlo sottinteso schizza all'apice del desiderio, dacché la voce gli s'è arroccata appresso, oramai fattasi rauca per il drammatico spreco.
"Mettete dei fiori nei vostri e nei nostri cannoni!"
Analogamente a imbelle barca indifesa, ripugnata l'avvilente arma e in procinto di naufragar i propri sensi nel tempestoso mare degli accadimenti, ove or l'ancora, in strettoia rocciosa, getterebbe, ond'approdar a sicuro lido affrancante ed esimersi dal rollar pressoché costante, equipollente al tremolio convulso d'una foglia sferzata da libeccio, seppur intenzionata a rimaner abbarbicata al pendulo peduncolo, ipotetico cordone legante se stessa al proprio ramo amato, mitragliato a sua volta da sibilanti raffiche violente, nulla gli rimane, se non aggrapparsi a speranzosa speme come fosse madre amata. Prono su terra rosseggiante, prostrato al fato, miraggio, gli appar, di verdi prati sterminati, nel sentor satollante d'olezzo floreale, sovrastante odore di ferroso sangue, d'assolate rene dorate, solcate da creste d'onda spumate di biancore, d'acque marine ornamentate di gemme lapislazzuli. Effluvio di vital salmastro, viceversa a putrida morte. Alfin, di nuvole, cumuli rincorrentisi e di frizzante aria, su pelle sì ignuda, sensazioni strabilianti, nell'impersonarsi libero parimenti a essa. Ineluttabilmente, l'offuscata coscienza è assalita da quesiti silenti d'un prode guerriero combattente...
... Per qual motivo ignoto, s'è dato sapere?
O all'opposto, rinnegante il malefico reale d'un giovin terrestre, sottratto alla propria esistenza ond'elargire dolore.
Putativo padre, quel sovrastante cielo può unicamente pianger lacrime amare!
Mai, per te, scrissi prima parole, o alcuna frase, nel corso della vita, giacché i ricordi restan vaghi, avendomi lasciata ancor bambina... Flash, dentro la mia mente, riportano a quell'età solare, dove i pensieri volavano leggeri sull'ali bianche della spensieratezza di quell'infanzia che m'appariva lieta, in specie nei giorni della festa, quando s'andava in campagna a passeggiare con il lindo vestito domenicale, tenuto in serbo durante la settimana. Io, a cavallina sulle tue spalle sicure, guardavo il mondo, trovandomi su, in alto, a toccar il cielo con la mia piccola mano. Anche il mio nome rammenta il tuo ricordo, di quella notte che udì il mio primo pianto, quando cantasti l'Iris di Mascagni, con la possente voce or così distante, che vorrei poter sentir anche per un istante. Padre mio amato, perduto troppo presto, idealizzato nel cuore e nel pensiero, son qui a scriver, per te, d'amor, parole, dolci come le caramelle che non mancavi di portare a questa piccola tua figlia, prima di dover andare in una vita celestiale, che ti richiamava a sé, a cui non ti potesti rifiutare.
Speranzosi desideri, al confine d'illusioni, in silente processione, scanditi da barlumi di realtà dacché nutriti d'ambrosia e miele, nonché dondolati nella culla dell'arcano, benché alternati ad altrettanti avversi, quale univoco fardello d'infestante erba cattiva dissipata, si scindon dal velenoso amaro, tal insidiosa genesi di chimere sconfinanti. Dondolata soavemente nella speme esistenziale, prevenendo detto evento, già in partenza con il piglio positivo, mi sottraggo al dispiacere del dileggio del destino. Piroettando come foglia trascinata dal marino o farfalla strabiliante, in un valzer nell'ellissi intorno al Sole, prim'ancora d'un declino sopra un lido assai fecondo, confacente a radicare, dove il vento scema in brezza, dentro e sotto un orizzonte riportante al Paradiso, pongo picche al negativo e son plagiata di bellezza.
Chi era colui ch'attendeva la morte, sotto un cielo dannato di ombre? Chi era colui ch'era pronto a soffrire, perire, qual segno estremo d'amore? Amore schernito e svilito, smarrito, in oceani di macchie sommerso. Tormento, nell'uomo nell'orto di ulivi sul far di portar la sua croce su spalle piagate da nerbo scandente lo strazio nel tempo. Dolore traspare da sguardo immortale, sul volto bagnato di sale; corrugata la fronte abbassata in preghiere all'eterno suo Padre; silenzio, al posto di sante parole. Il Dio umanizzato scacciava il plagiante serpente dall'ara del male, cosicché consacrarla all'inverso potere. Onorando l'intento divino, l'agnello attendeva la sorte, qual Figlio del Dio universale, da bocca di "roccia" sortito allorché non ancor rinnegato l'aveva. Il tempo impietoso arrivava a sancirne la fine, omicida di vita carnale. Chi era tal uomo diverso, che, scontando i peccati del mondo, trasudava martirio e perdono? La corona pressata sul capo reietto... Qual fonte di stille di sangue, lui stesso ogni spina conclamava reliquia. Chi era colui che, aspettando la morte, invocava suo Padre, sotto un cielo dannato da ombre?
Disseminato è il candore del manto, sprazzi di neve sui rami rinsecchiti e sui sempreverdi, dove il verde, in parte, s'è arreso al bianco maculato. Muro cinereo, coniato di vapore, sottrae il crepuscolo mattutino, quel barlume, divenente albore adamantino, risvegliante la coscienza e lo stupore, per l'astratta concezione di concreta, incantevole visione. Purezza di paesaggio pregna lo sguardo e altrettanta quiete, l'udito; anche il vento s'ea assopito tra le fronde, per scovar un nido vuoto, indi riposare; raminghi cinguettii son iti altrove, sfuggiti, all'implementar della stagione. Né voci, urlate o sussurrate, né canti né pianti, neppure risa attorno; l'atmosfera rarefatta, plasmata di gelo e di silenzio saturo altresì di solitudine, ha relegato ognor nelle dimore, membra intirizzite e desianti calore. S'ode raro palpito d'ardito cuore, a intervallar mutismo stagnante, col suo vivace ritmo roboante, seppur non basti a richiamar il vento. Or che dorme, vane son insensate parole, illusorie frasi d'amore; disillusa speranza che spirino in vetta per esser udite da orecchie insicure, bramanti tutt'altro che bieche menzogne ad acquietar penuria d'amore di chi tace nel sacrale limbo di pace ch'appare, ch'il vento non osa dissacrare, per dar immotivato corpo al niente.
Tiepide gocce calde, rincorrendosi sulle guance, lasciano rivoli di sale. Non più nascondo amare lacrime versate, ben conscia che la penombra non permetta loro di riflettersi allo specchio, dacché non noti il viso segnato dal pianto; viceversa, scruti l'ombra di ciò che sono adesso. Mai s'impone il silenzio, favorendo il chiasso e l'umore; con sussiego, la sua ridondante presenza m'incatena, mormorandomi inarticolate parole, a marchio dell'attesa per una realtà in cui mi crogiolo ancora.
Ti vidi... Ti ambii... Estranea a quel che ero; rifuggii da me stessa, onde ricercar quel ch'avrei voluto essere e ciò ch'avrei voluto. In un'eterogenia di sensazioni straripanti, i miei sensi, svincolati da una ragione che l'avea fatta da padrona troppo a lungo, nel tempo sconfinato nell'assurdo, rinascevan a nuova vita.
Mi vedesti... Mi ambisti... Circoscritto in un viver sconfortante, ti celavi dietro a specchi dacché non osservar dinanzi gli occhi inespressivi; eran spenti, parimenti ai rumori dissonanti. Occultato nei silenzi, rifuggiti addirittura alla spira d'impercettibili suoni e bisbigli, costante, quel timore di scoprirti ancora vivo. Disastrosa condizione d'una presa di coscienza; verità, in cui le lacrime d'un uomo, in atavica battaglia tra debolezza e dignità pretesa, mascherandosi d'apparenza, presero a sanguinare, ruzzolando sulla via del cuore
Fu un battito di ciglia, cotanto ardore ricolmo di mistero nell'estraneità presente di ambedue. Fervente desiderio incontrollabile, l'inconsistente onda travolgente non dissimile al primario slancio istintivo a cui t'aggrappasti, simulando un naufrago, sottratto alla fine grazie al richiamo d'una sponda.
Nell'impetuoso mare intarsiato di reciproci sentimenti, rinvenni colei che tornò ad amare. Estasianti baci e abbracci appassionati, in un rogo tutto nuovo e sorprendente, coronavano il nesso presupposto. Nuotando dentro il lago del tuo sguardo, lo rimiravo, annegato nel bruno mio, profondo. Rinnegato dai silenzi, gioivi d'esser vivo, saziandoti di gemiti e sussurri, dentro ore fatiscenti carpite all'orologio.
Orazioni, citavo alla morte, affinché mi lasciasse del tempo. Il suo pronto riscontro dicea: "Ma certo, convengo, benché il tempo restante non più t'appartenga". All'oscura risposta, un lato mi rendea indubbio conforto, ma l'altro palesavasi un enigma bello e buono, a discapito del mio pensiero speranzoso. Salii sul pennone d'un vascello galeotto, ch'ea parso ben disposto al mio fare clandestino. Da lassù, scrutando il cielo sì turchino, rievocante lunga chioma della fata di Pinocchio e trascritto un annuncio alquanto strano, lo inserii nella bottiglia, tanto assurda quanto vera, sì forgiata solo d'aria mista a vento, con l'intento che ruotasse per il mondo e ancora oltre, fin laddove si lambiscon i confini d'universo: "Tale tempo, che rimane, non ti degna il suo favore. D'esser tuo, non ha intenzione. Esso più non t'appartiene". Enunciò sorella morte, con l'aggiunta di parole, ben cosciente della mia aguzza mente, che, però, alla frase sibillina, restò inerme. Per cui sorse la domanda: "Ma, alfin, chi n'è il padrone?" Possa, dunque, chiunque legga il mio messaggio, far in modo di fornir l'esatta interpretazione o l'impertinente dubbio roderà quest'intelletto per il tempo ch'è rimasto. Detto fatto, scagliai in aere tale oggetto. Di riflesso, soffermai lo sguardo attorno, mentre il velo dell'arcano si dissolse, stimolando il mio sguardo ad ammirar: il quieto mare così immenso, cantastorie affascinante, che sapea ammaliar la gente, col suo immortale canto; le distese di montagne, dalle alture dritte al cielo, le lor coste, imbiancate o verdeggianti, emananti rari olezzi; il bel sole, fulgente di chiarore, incontrastato Imperatore, nel tramontar soave, di purpurea tinta s'ammantava; la fascinosa luna, pallida e altera, nell'imbrunir di sera, con rinnovato passo da Regina, avanzava fiera. le stelle palpitanti, come pietre iridescenti, rendean prezioso il manto di velluto nero. Stranita, alfin, sorrisi... L'eclettico capolavoro, d'egocentrici elementi, ambendo il mio tempo, sancivan, ch'attraverso, mi concedean cotal permesso: di sollazzar il rimirante sguardo allor fattosi attento, di consolar il cuore solitario, un poco affranto, di coronar l'eterno spirito d'immenso. A chi spettava il tempo mio, se non a loro? Ne avea ben dunque avuto buon motivo, d'un similare decretar, la morte; ovvia ragion per cui, tutto considerato, ebbi il buonsenso d'accettar tal compromesso.