Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

I tre santi Re Magi dall'Oriente

I tre santi Re Magi dall'Oriente
Chisedono in ogni piccola città:
"Cari ragazzi e giovinette, dite,
la strada per Betlemme è per di qua? "

Ma i giovani ed i vecchi non lo sanno
E i tre Re Magi sempre avanti vanno;
ma una cometa d'oro li conduce
che lassù chiara e amabile riluce.

La stella sulla casa di Giuseppe
Ecco s'arresta: là devono entrare.
Il bovetto muggisce, il bimbo strilla,
e i tre Re Magi prendono a cantare.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Al nostro re Teopompo, caro agli dèi

    Al nostro re Teopompo, caro agli dèi,
    per merito del quale conquistammo Messene, dalle ampie contrade
    ...
    Messene, luogo bello per arare, bello per piantare
    ...
    intorno ad essa combatterono per diciannove anni,
    sempre, senza interruzione, con animo coraggioso,
    i guerrieri, padri dei nostri padri.
    E nel ventesimo anno, lasciati i pingui campi,

    quelli fuggivano dalle alte cime dell'Itome.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Per un uomo valoroso è bello cadere morto

      Per un uomo valoroso è bello cadere morto
      combattendo in prima fila per la patria;
      abbandonare la propria città e i fertili campi
      e vagare mendico, è di tutte la sorte più misera,
      con la madre errando e con il vecchio padre,
      con i figli piccoli e la moglie.
      Sarà odioso alla gente presso cui giunge,
      cedendo al bisogno e alla detestata povertà:
      disonora la stirpe, smentisce il florido aspetto;
      disprezzo e sventura lo seguono.
      Se, così, dell'uomo randagio non vi è cura,
      né rispetto, neppure in futuro per la sua stirpe,
      con coraggio per questa terra combattiamo, e per i figli
      andiamo a morire, senza più risparmiare la vita.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Talor mentre cammino per le strade

        Talor, mentre cammino per le strade
        della città tumultuosa solo,
        mi dimentico il mio destino d'essere
        uomo tra gli altri, e, come smemorato,
        anzi tratto fuor di me stesso, guardo
        la gente con aperti estranei occhi.

        M'occupa allora un puerile, un vago
        senso di sofferenza ed ansietà
        come per mano che mi opprima il cuore.
        Fronti calve di vecchi, inconsapevoli
        occhi di bimbi, facce consuete
        di nati a faticare e a riprodursi,
        facce volpine stupide beate,
        facce ambigue di preti, pitturate
        facce di meretrici, entro il cervello
        mi s'imprimono dolorosamente.
        E conosco l'inganno pel qual vivono,
        il dolore che mise quella piega
        sul loro labbro, le speranze sempre
        deluse,
        e l'inutilità della loro vita
        amara e il lor destino ultimo, il buio.

        Ché ciascuno di loro porta seco
        la condanna d'esistere: ma vanno
        dimentichi di ciò e di tutto, ognuno
        occupato dall'attimo che passa,
        distratto dal suo vizio prediletto.

        Provo un disagio simile a chi veda
        inseguire farfalle lungo l'orlo
        d'un precipizio, od una compagnia
        di strani condannati sorridenti.
        E se poco ciò dura, io veramente
        in quell'attimo dentro m'impauro
        a vedere che gli uomini son tanti.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Taci, anima stanca di godere

          Taci, anima stanca di godere
          e di soffrire(all'uno e all'altro vai
          rassegnata)
          Nessuna voce tua odo se ascolto:
          non di rimpianto per la miserabile
          giovinezza, non d'ira o di speranza,
          e neppure di tedio.
          Giaci come
          il corpo, ammutolita, tutta piena
          d'una rassegnazione disperata.
          Non ci stupiremmo,
          non è vero, mia anima, se il cuore
          si fermasse, sospeso se ci fosse
          il fiato...
          Invece camminiamo,
          camminiamo io e te come sonnambuli.
          E gli alberi son alberi, le case
          sono case, le donne
          che passano son donne, e tutto è quello
          che è, soltanto quel che è.
          La vicenda di gioia e di dolore
          non ci tocca. Perduto ha la voce
          la sirena del mondo, e il mondo è un grande
          deserto.
          Nel deserto
          io guardo con asciutti occhi me stesso.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Padre, anche se

            Padre, se anche tu non fossi il mio
            padre,
            per te stesso, egualmente t'amerei.
            Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
            che la prima viola sull'opposto
            muro scopristi dalla tua finestra
            e ce ne desti la novella allegro.
            E subito la scala tolta in spalla
            di casa uscisti e l'appoggiavi al muro.
            Noi piccoli dai vetri si guardava.

            E di quell'altra volta mi ricordo
            che la sorella, bambinetta ancora,
            per la casa inseguivi minacciando.
            Ma raggiuntala che strillava forte
            dalla paura, ti mancava il cuore:
            t'eri visto rincorrere la tua
            piccola figlia e, tutta spaventata,
            tu vacillando l'attiravi al petto
            e con carezze la ricoveravi
            tra le tue braccia come per difenderla
            da quel cattivo ch'eri tu di prima.

            Padre, se anche tu non fossi il mio
            padre...
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Ora che sei venuta

              Ora che sei venuta,
              che con passo di danza sei entrata
              nella mia vita
              quasi folata in una stanza chiusa –
              a festeggiarti, bene tanto atteso,
              le parole mi mancano e la voce
              e tacerti vicino già mi basta.

              Il pigolìo così che assorda il bosco
              al nascere dell'alba, ammutolisce
              quando sull'orizzonte balza il sole.

              Ma te la mia inqietitudine cercava
              quando ragazzo
              nella notte d'estate mi facevo
              alla finestra come soffocato:
              che non sapevo, m'affannava il cuore.
              E tutte tue sono le parole
              che, come l'acqua all'orlo che trabocca,
              alla bocca venivano da sole,

              l'ore deserte, quando s'avanzavan
              puerilmente le mie labbra d'uomo
              da sé, per desiderio di baciare....
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                Scritta da: Silvana Stremiz
                Corpo felice, acqua tra le mie mani,
                volto amato dove contemplo il mondo,
                dove graziosi uccelli si riflettono in fuga,
                volando alla regione dove nulla si oblia.

                La forma che ti veste, di diamante o rubino,
                brillio di un sole che tra le mie mani abbaglia,
                cratere che mi attrae con l'intima sua musica,
                con la chiamata indecifrabile dei denti.

                Muoio perché m'avvento, perché voglio morire
                o vivere nel fuoco, perché quest'aria che spira
                non mi appartiene, è l'alito rovente
                che se m'accosto brucia e dora le mie labbra dal profondo.

                Lascia, lascia che guardi, infiammato d'amore,
                mentre la tua purpurea vita mi arrossa il volto,
                che guardi nel remoto clamore del tuo grembo
                dove muoio e rinuncio a vivere per sempre.

                Voglio amore o la morte, o morire del tutto,
                voglio essere il tuo sangue, te, la lava ruggente
                che bagnando frenata estreme membra belle
                sente così i mirabili confini dell'esistere.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Con Pietà per gli Avidi

                  Riguardo alla lettera in cui mi chiedi
                  di chiamare un prete
                  e di mettermi il Crocefisso che mi mandi -
                  il tuo crocefisso
                  il crocefisso roso dal cane,
                  non più largo d'un pollice,
                  di legno e senza spine, questa rosa:

                  io prego la sua ombra,
                  il luogo grigio - profondissimo -
                  dove si trova, sopra la tua lettera.
                  Odio i miei peccati e mi sforzo di credere
                  nel Crocefisso. Tocco le sue tenere anche, le mascelle scure,
                  il collo solido, il suo sonno bruno.

                  È vero, c'è
                  un Gesù, bello,
                  raggelato fino al midollo come un pezzo di manzo.
                  Ha una voglia disperata di chiudere le braccia
                  e io ne tocco disperata l'asse verticale e orizzontale.
                  Ma non posso: il bisogno non è esattamente fede.

                  Ho portato il tuo crocefisso
                  tutta la mattina
                  legato al collo con uno spago.
                  Ne sentivo il battito lieve come il cuore di un bimbo,
                  che in dolce attesa di nascere pulsa indirettamente.
                  Ruth, mi è cara la tua lettera.
                  Amica mia, io sono nata
                  compilando bibliografie sul peccato,
                  e confessandolo. Le poesie sono questo:
                  con pietà
                  per gli avidi,
                  sono le liti della lingua,
                  il minestrone del mondo, l'astro del sorcio.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Ragazza Ignota in Reparto Maternità

                    Bimbo, la corrente del respiro ha sei giorni.
                    Piccola nocca t'accoccoli sul letto bianco,
                    piccolo e forte, come una chiocciola rattratto
                    ti rannicchi al seno.
                    Le labbra sono animali, sei nutrito con amore.
                    All'inizio la fame non è errore.
                    Tentennano le cuffiette le infermiere,
                    su ceste a rotelle sei pascolato
                    con la nidiata dei senza nido,
                    lungo corridoi inamidati.
                    La tua testa al mio tocco s'inclina,
                    vacilla piano come una tazzina.
                    Senti l'appartenenza.
                    Ma questo è un letto istituzionale.
                    Non farai per molto la mia conoscenza.

                    I dottori sono smaltati.
                    Vogliono sapere i fatti.
                    Si chiedono dell'uomo che mi ha lasciato,
                    un'anima pendolo che viene e che va
                    e come sempre ti lascia piena di bambino.
                    Ma la nostra cartella clinica rimane vuota.
                    Ti ho lasciato crescere, non ho fatto altro.
                    Ora siamo qui, guardati da tutto il reparto.
                    Hanno pensato che fossi strana
                    Anche se non ho detto una parola.
                    Sono esplosa e svuotandomi di te
                    ti ho lasciato imparare cos'è l'aria.
                    I dottori fanno grafici d'indovinelli.
                    Volgo la testa altrove. Io non lo so.

                    È tua la sola faccia che riconosco.
                    Ossa da ossa mi bevi le risposte.
                    Sei volte al giorno soddisfo il tuo bisogno,
                    le tue labbra animali,
                    il tepore della pelle che si fa paffuta.
                    Vedo schiudersi le tendine degli occhi.
                    Sono pietre blu, il muschio va sparendo.
                    Sbatti le palpebre stupito,
                    e mi chiedo cosa vedi
                    strano parente che turbi il mio silenzio.
                    Sono un riparo di menzogne.
                    Dovrei di nuovo imparare a parlare,
                    o senza speranza di salute mentale
                    potrò toccare un viso che riconosco?

                    Nel corridoio ritornano le ceste.
                    Le mie braccia ti calzano a pennello,
                    avvolgono le lanose infiorescenze
                    dei tuoi salici piangenti,
                    l'arnia ronzante d'api dei tuoi nervi,
                    i muscoli e le grinze dei primi giorni.
                    La tua faccia da vecchino
                    disarma le infermiere.
                    I dottori mi rimproverano ancora.
                    Parlo allora. È a te che il mio silenzio nuoce.
                    Dovevo saperlo. Devo far scrivere qualcosa.
                    La voce s'allarma nella gola:
                    "Nome del padre: nessuno".
                    Ti tengo fra le braccia e ti nomino bastardo.

                    E anche questa è fatta. Non ho più
                    niente da dire, niente da perdere.
                    Altre hanno già trafficato vita
                    e non potevano parlare.
                    Mi rattrappisco per evitare
                    i tuoi occhi gufigni, mio fragile ospite.
                    Sfioro le tue guance come fiori. Al contatto
                    illividisci. Ci disconosciamo. Sono
                    l'insenatura che t'accoglie, lo scoglio
                    contro cui ti frangi. Ti stacchi. Scelgo
                    l'unica via per te, piccolo erede,
                    e ti do via, squassando i noi stessi che perdiamo.
                    Và bimbo che non sei nulla più d'un mio peccato.
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