Al nostro re Teopompo, caro agli dèi, per merito del quale conquistammo Messene, dalle ampie contrade ... Messene, luogo bello per arare, bello per piantare ... intorno ad essa combatterono per diciannove anni, sempre, senza interruzione, con animo coraggioso, i guerrieri, padri dei nostri padri. E nel ventesimo anno, lasciati i pingui campi,
Per un uomo valoroso è bello cadere morto combattendo in prima fila per la patria; abbandonare la propria città e i fertili campi e vagare mendico, è di tutte la sorte più misera, con la madre errando e con il vecchio padre, con i figli piccoli e la moglie. Sarà odioso alla gente presso cui giunge, cedendo al bisogno e alla detestata povertà: disonora la stirpe, smentisce il florido aspetto; disprezzo e sventura lo seguono. Se, così, dell'uomo randagio non vi è cura, né rispetto, neppure in futuro per la sua stirpe, con coraggio per questa terra combattiamo, e per i figli andiamo a morire, senza più risparmiare la vita.
Talor, mentre cammino per le strade della città tumultuosa solo, mi dimentico il mio destino d'essere uomo tra gli altri, e, come smemorato, anzi tratto fuor di me stesso, guardo la gente con aperti estranei occhi.
M'occupa allora un puerile, un vago senso di sofferenza ed ansietà come per mano che mi opprima il cuore. Fronti calve di vecchi, inconsapevoli occhi di bimbi, facce consuete di nati a faticare e a riprodursi, facce volpine stupide beate, facce ambigue di preti, pitturate facce di meretrici, entro il cervello mi s'imprimono dolorosamente. E conosco l'inganno pel qual vivono, il dolore che mise quella piega sul loro labbro, le speranze sempre deluse, e l'inutilità della loro vita amara e il lor destino ultimo, il buio.
Ché ciascuno di loro porta seco la condanna d'esistere: ma vanno dimentichi di ciò e di tutto, ognuno occupato dall'attimo che passa, distratto dal suo vizio prediletto.
Provo un disagio simile a chi veda inseguire farfalle lungo l'orlo d'un precipizio, od una compagnia di strani condannati sorridenti. E se poco ciò dura, io veramente in quell'attimo dentro m'impauro a vedere che gli uomini son tanti.
Taci, anima stanca di godere e di soffrire(all'uno e all'altro vai rassegnata) Nessuna voce tua odo se ascolto: non di rimpianto per la miserabile giovinezza, non d'ira o di speranza, e neppure di tedio. Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena d'una rassegnazione disperata. Non ci stupiremmo, non è vero, mia anima, se il cuore si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato... Invece camminiamo, camminiamo io e te come sonnambuli. E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, soltanto quel che è. La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduto ha la voce la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso.
Padre, se anche tu non fossi il mio padre, per te stesso, egualmente t'amerei. Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno che la prima viola sull'opposto muro scopristi dalla tua finestra e ce ne desti la novella allegro. E subito la scala tolta in spalla di casa uscisti e l'appoggiavi al muro. Noi piccoli dai vetri si guardava.
E di quell'altra volta mi ricordo che la sorella, bambinetta ancora, per la casa inseguivi minacciando. Ma raggiuntala che strillava forte dalla paura, ti mancava il cuore: t'eri visto rincorrere la tua piccola figlia e, tutta spaventata, tu vacillando l'attiravi al petto e con carezze la ricoveravi tra le tue braccia come per difenderla da quel cattivo ch'eri tu di prima.
Ora che sei venuta, che con passo di danza sei entrata nella mia vita quasi folata in una stanza chiusa – a festeggiarti, bene tanto atteso, le parole mi mancano e la voce e tacerti vicino già mi basta.
Il pigolìo così che assorda il bosco al nascere dell'alba, ammutolisce quando sull'orizzonte balza il sole.
Ma te la mia inqietitudine cercava quando ragazzo nella notte d'estate mi facevo alla finestra come soffocato: che non sapevo, m'affannava il cuore. E tutte tue sono le parole che, come l'acqua all'orlo che trabocca, alla bocca venivano da sole,
l'ore deserte, quando s'avanzavan puerilmente le mie labbra d'uomo da sé, per desiderio di baciare....
Corpo felice, acqua tra le mie mani, volto amato dove contemplo il mondo, dove graziosi uccelli si riflettono in fuga, volando alla regione dove nulla si oblia.
La forma che ti veste, di diamante o rubino, brillio di un sole che tra le mie mani abbaglia, cratere che mi attrae con l'intima sua musica, con la chiamata indecifrabile dei denti.
Muoio perché m'avvento, perché voglio morire o vivere nel fuoco, perché quest'aria che spira non mi appartiene, è l'alito rovente che se m'accosto brucia e dora le mie labbra dal profondo.
Lascia, lascia che guardi, infiammato d'amore, mentre la tua purpurea vita mi arrossa il volto, che guardi nel remoto clamore del tuo grembo dove muoio e rinuncio a vivere per sempre.
Voglio amore o la morte, o morire del tutto, voglio essere il tuo sangue, te, la lava ruggente che bagnando frenata estreme membra belle sente così i mirabili confini dell'esistere.
Riguardo alla lettera in cui mi chiedi di chiamare un prete e di mettermi il Crocefisso che mi mandi - il tuo crocefisso il crocefisso roso dal cane, non più largo d'un pollice, di legno e senza spine, questa rosa:
io prego la sua ombra, il luogo grigio - profondissimo - dove si trova, sopra la tua lettera. Odio i miei peccati e mi sforzo di credere nel Crocefisso. Tocco le sue tenere anche, le mascelle scure, il collo solido, il suo sonno bruno.
È vero, c'è un Gesù, bello, raggelato fino al midollo come un pezzo di manzo. Ha una voglia disperata di chiudere le braccia e io ne tocco disperata l'asse verticale e orizzontale. Ma non posso: il bisogno non è esattamente fede.
Ho portato il tuo crocefisso tutta la mattina legato al collo con uno spago. Ne sentivo il battito lieve come il cuore di un bimbo, che in dolce attesa di nascere pulsa indirettamente. Ruth, mi è cara la tua lettera. Amica mia, io sono nata compilando bibliografie sul peccato, e confessandolo. Le poesie sono questo: con pietà per gli avidi, sono le liti della lingua, il minestrone del mondo, l'astro del sorcio.
Bimbo, la corrente del respiro ha sei giorni. Piccola nocca t'accoccoli sul letto bianco, piccolo e forte, come una chiocciola rattratto ti rannicchi al seno. Le labbra sono animali, sei nutrito con amore. All'inizio la fame non è errore. Tentennano le cuffiette le infermiere, su ceste a rotelle sei pascolato con la nidiata dei senza nido, lungo corridoi inamidati. La tua testa al mio tocco s'inclina, vacilla piano come una tazzina. Senti l'appartenenza. Ma questo è un letto istituzionale. Non farai per molto la mia conoscenza.
I dottori sono smaltati. Vogliono sapere i fatti. Si chiedono dell'uomo che mi ha lasciato, un'anima pendolo che viene e che va e come sempre ti lascia piena di bambino. Ma la nostra cartella clinica rimane vuota. Ti ho lasciato crescere, non ho fatto altro. Ora siamo qui, guardati da tutto il reparto. Hanno pensato che fossi strana Anche se non ho detto una parola. Sono esplosa e svuotandomi di te ti ho lasciato imparare cos'è l'aria. I dottori fanno grafici d'indovinelli. Volgo la testa altrove. Io non lo so.
È tua la sola faccia che riconosco. Ossa da ossa mi bevi le risposte. Sei volte al giorno soddisfo il tuo bisogno, le tue labbra animali, il tepore della pelle che si fa paffuta. Vedo schiudersi le tendine degli occhi. Sono pietre blu, il muschio va sparendo. Sbatti le palpebre stupito, e mi chiedo cosa vedi strano parente che turbi il mio silenzio. Sono un riparo di menzogne. Dovrei di nuovo imparare a parlare, o senza speranza di salute mentale potrò toccare un viso che riconosco?
Nel corridoio ritornano le ceste. Le mie braccia ti calzano a pennello, avvolgono le lanose infiorescenze dei tuoi salici piangenti, l'arnia ronzante d'api dei tuoi nervi, i muscoli e le grinze dei primi giorni. La tua faccia da vecchino disarma le infermiere. I dottori mi rimproverano ancora. Parlo allora. È a te che il mio silenzio nuoce. Dovevo saperlo. Devo far scrivere qualcosa. La voce s'allarma nella gola: "Nome del padre: nessuno". Ti tengo fra le braccia e ti nomino bastardo.
E anche questa è fatta. Non ho più niente da dire, niente da perdere. Altre hanno già trafficato vita e non potevano parlare. Mi rattrappisco per evitare i tuoi occhi gufigni, mio fragile ospite. Sfioro le tue guance come fiori. Al contatto illividisci. Ci disconosciamo. Sono l'insenatura che t'accoglie, lo scoglio contro cui ti frangi. Ti stacchi. Scelgo l'unica via per te, piccolo erede, e ti do via, squassando i noi stessi che perdiamo. Và bimbo che non sei nulla più d'un mio peccato.