Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

A un vincitore nel pallone

Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s'alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell'età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l'ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò dè Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? E che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l'opre dè mortali? Ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch'alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l'aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s'onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? Solo a spregiarla:
Beata allor che nè perigli avvolta,
Se stessa obblia, né delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    All'Italia

    O patria mia, vedo le mura e gli archi
    E le colonne e i simulacri e l'erme
    Torri degli avi nostri,
    Ma la la gloria non vedo,
    Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
    I nostri padri antichi. Or fatta inerme
    Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
    Oimè quante ferite,
    Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
    Formesissima donna!
    Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
    Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
    Che di catene ha carche ambe le braccia,
    Sì che sparte le chiome e senza velo
    Siede in terra negletta e sconsolata,
    Nascondendo la faccia
    Tra le ginocchia, e piange.
    Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
    Le genti a vincer nata
    E nella fausta sorte e nella ria.
    Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
    Mai non potrebbe il pianto
    Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
    Che fosti donna, or sei povera ancella.
    Chi di te parla o scrive,
    Che, rimembrando il tuo passato vanto,
    Non dica: già fu grande, or non è quella?
    Perché, perché? Dov'è la forza antica?
    Dove l'armi e il valore e la costanza?
    Chi ti discinse il brando?
    Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
    0 qual tanta possanza,
    Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
    Come cadesti o quando
    Da tanta altezza in così basso loco?
    Nessun pugna per te? Non ti difende
    Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
    Combatterà, procomberò sol io.
    Dammi, o ciel, che sia foco
    Agl'italici petti il sangue mio.
    Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
    E di carri e di voci e di timballi
    In estranie contrade
    Pugnano i tuoi figliuoli.
    Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
    Un fluttuar di fanti e di cavalli,
    E fumo e polve, e luccicar di spade
    Come tra nebbia lampi.
    Nè ti conforti e i tremebondi lumi
    Piegar non soffri al dubitoso evento?
    A che pugna in quei campi
    L'itata gioventude? 0 numi, o numi
    Pugnan per altra terra itali acciari.
    Oh misero colui che in guerra è spento,
    Non per li patrii lidi e per la pia
    Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
    Per altra gente, e non può dir morendo
    Alma terra natia,
    La vita che mi desti ecco ti rendo.
    Oh venturose e care e benedette
    L'antiche età, che a morte
    Per la patria correan le genti a squadre
    E voi sempre onorate e gloriose,
    0 tessaliche strette,
    Dove la Persia e il fato assai men forte
    Fu di poch'alme franche e generose!
    Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
    E le montagne vostre al passeggere
    Con indistinta voce
    Narrin siccome tutta quella sponda
    Coprir le invitte schiere
    Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
    Allor, vile e feroce,
    Serse per l'Ellesponto si fuggia,
    Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
    E sul colle d'Antela, ove morendo
    Si sottrasse da morte il santo stuolo,
    Simonide salia,
    Guardando l'etra e la marina e il suolo.
    E di lacrime sparso ambe le guance,
    E il petto ansante, e vacillante il piede,
    Toglicasi in man la lira:
    Beatissimi voi,
    Ch'offriste il petto alle nemiche lance
    Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
    Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
    Nell'armi e nè perigli
    Qual tanto amor le giovanette menti,
    Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
    Come si lieta, o figli,
    L'ora estrema vi parve, onde ridenti
    Correste al passo lacrimoso e, duro?
    Parea ch'a danza e non a morte andasse
    Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
    Ma v'attendea lo scuro
    Tartaro, e l'ond'a morta;
    Nè le spose vi foro o i figli accanto
    Quando su l'aspro lito
    Senza baci moriste e senza pianto.
    Ma non senza dè Persi orrida pena
    Ed immortale angoscia.
    Come lion di tori entro una mandra
    Or salta a quello in tergo e sì gli scava
    Con le zanne la schiena,
    Or questo fianco addenta or quella coscia;
    Tal fra le Perse torme infuriava
    L'ira dè greci petti e la virtute.
    Vè cavalli supini e cavalieri;
    Vedi intralciare ai vinti
    La fuga i carri e le tende cadute,
    E correr frà primieri
    Pallido e scapigliato esso tiranno;
    vè come infusi e tintí
    Del barbarico sangue i greci eroi,
    Cagione ai Persi d'infinito affanno,
    A poco a poco vinti dalle piaghe,
    L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
    Beatissimi voi
    Mentre nel mondo si favelli o scriva.
    Prima divelte, in mar precipitando,
    Spente nell'imo strideran le stelle,
    Che la memoria e il vostro
    Amor trascorra o scemi.
    La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
    Verran le madri ai parvoli le belle
    Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
    0 benedetti, al suolo,
    E bacio questi sassi e queste zolle,
    Che fien lodate e chiare eternamente
    Dall'uno all'altro polo.
    Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
    Fosse del sangue mio quest'alma terra.
    Che se il fato è diverso, e non consente
    Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
    Chiuda prostrato in guerra,
    Così la vereconda
    Fama del vostro vate appo i futuri
    Possa, volendo i numi,
    Tanto durar quanto la, vostra duri.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Le ricordanze

      Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
      Tornare ancor per uso a contemplarvi
      Sul paterno giardino scintillanti,
      E ragionar con voi dalle finestre
      Di questo albergo ove abitai fanciullo,
      E delle gioie mie vidi la fine.
      Quante immagini un tempo, e quante fole
      Creommi nel pensier l'aspetto vostro
      E delle luci a voi compagne! Allora
      Che, tacito, seduto in verde zolla,
      Delle sere io solea passar gran parte
      Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
      Della rana rimota alla campagna!
      E la lucciola errava appo le siepi
      E in su l'aiuole, susurrando al vento
      I viali odorati, ed i cipressi
      Là nella selva; e sotto al patrio tetto
      Sonavan voci alterne, e le tranquille
      Opre dè servi. E che pensieri immensi,
      Che dolci sogni mi spirò la vista
      Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
      Che di qua scopro, e che varcare un giorno
      Io mi pensava, arcani mondi, arcana
      Felicità fingendo al viver mio!
      Ignaro del mio fato, e quante volte
      Questa mia vita dolorosa e nuda
      Volentier con la morte avrei cangiato.
      Né mi diceva il cor che l'età verde
      Sarei dannato a consumare in questo
      Natio borgo selvaggio, intra una gente
      Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
      Argomento di riso e di trastullo,
      Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
      Per invidia non già, che non mi tiene
      Maggior di sé, ma perché tale estima
      Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
      A persona giammai non ne fo segno.
      Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
      Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
      Tra lo stuol dè malevoli divengo:
      Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
      E sprezzator degli uomini mi rendo,
      Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
      Il caro tempo giovanil; più caro
      Che la fama e l'allor, più che la pura
      Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
      Senza un diletto, inutilmente, in questo
      Soggiorno disumano, intra gli affanni,
      O dell'arida vita unico fiore.
      Viene il vento recando il suon dell'ora
      Dalla torre del borgo. Era conforto
      Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
      Quando fanciullo, nella buia stanza,
      Per assidui terrori io vigilava,
      Sospirando il mattin. Qui non è cosa
      Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
      Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
      Dolce per sé; ma con dolor sottentra
      Il pensier del presente, un van desio
      Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
      Quella loggia colà, volta agli estremi
      Raggi del dì; queste dipinte mura,
      Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
      Su romita campagna, agli ozi miei
      Porser mille diletti allor che al fianco
      M'era, parlando, il mio possente errore
      Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
      Al chiaror delle nevi, intorno a queste
      Ampie finestre sibilando il vento,
      Rimbombaro i sollazzi e le festose
      Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
      Mistero delle cose a noi si mostra
      Pien di dolcezza; indelibata, intera
      Il garzoncel, come inesperto amante,
      La sua vita ingannevole vagheggia,
      E celeste beltà fingendo ammira.
      O speranze, speranze; ameni inganni
      Della mia prima età! Sempre, parlando,
      Ritorno a voi; che per andar di tempo,
      Per variar d'affetti e di pensieri,
      Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
      Son la gloria e l'onor; diletti e beni
      Mero desio; non ha la vita un frutto,
      Inutile miseria. E sebben vòti
      Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
      Il mio stato mortal, poco mi toglie
      La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
      A voi ripenso, o mie speranze antiche,
      Ed a quel caro immaginar mio primo;
      Indi riguardo il viver mio sì vile
      E sì dolente, e che la morte è quello
      Che di cotanta speme oggi m'avanza;
      Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
      Consolarmi non so del mio destino.
      E quando pur questa invocata morte
      Sarammi allato, e sarà giunto il fine
      Della sventura mia; quando la terra
      Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
      Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
      Risovverrammi; e quell'imago ancora
      Sospirar mi farà, farammi acerbo
      L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
      Del dì fatal tempererà d'affanno.
      E già nel primo giovanil tumulto
      Di contenti, d'angosce e di desio,
      Morte chiamai più volte, e lungamente
      Mi sedetti colà su la fontana
      Pensoso di cessar dentro quell'acque
      La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
      Malor, condotto della vita in forse,
      Piansi la bella giovanezza, e il fiore
      Dè miei poveri dì, che sì per tempo
      Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
      Sul conscio letto, dolorosamente
      Alla fioca lucerna poetando,
      Lamentai cò silenzi e con la notte
      Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
      In sul languir cantai funereo canto.
      Chi rimembrar vi può senza sospiri,
      O primo entrar di giovinezza, o giorni
      Vezzosi, inenarrabili, allor quando
      Al rapito mortal primieramente
      Sorridon le donzelle; a gara intorno
      Ogni cosa sorride; invidia tace,
      Non desta ancora ovver benigna; e quasi
      (Inusitata maraviglia! ) il mondo
      La destra soccorrevole gli porge,
      Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
      Suo venir nella vita, ed inchinando
      Mostra che per signor l'accolga e chiami?
      Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
      Son dileguati. E qual mortale ignaro
      Di sventura esser può, se a lui già scorsa
      Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
      Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
      O Nerina! E di te forse non odo
      Questi luoghi parlar? Caduta forse
      Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
      Che qui sola di te la ricordanza
      Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
      Questa Terra natal: quella finestra,
      Ond'eri usata favellarmi, ed onde
      Mesto riluce delle stelle il raggio,
      È deserta. Ove sei, che più non odo
      La tua voce sonar, siccome un giorno,
      Quando soleva ogni lontano accento
      Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
      Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
      Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
      Il passar per la terra oggi è sortito,
      E l'abitar questi odorati colli.
      Ma rapida passasti; e come un sogno
      Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
      La gioia ti splendea, splendea negli occhi
      Quel confidente immaginar, quel lume
      Di gioventù, quando spegneali il fato,
      E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
      L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
      Se a radunanze io movo, infra me stesso
      Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
      Tu non ti acconci più, tu più non movi.
      Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
      Van gli amanti recando alle fanciulle,
      Dico: Nerina mia, per te non torna
      Primavera giammai, non torna amore.
      Ogni giorno sereno, ogni fiorita
      Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
      Dico: Nerina or più non gode; i campi,
      L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
      Sospiro mio: passasti: e fia compagna
      D'ogni mio vago immaginar, di tutti
      I miei teneri sensi, i tristi e cari
      Moti del cor, la rimembranza acerba.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        La sera del dì di festa

        Dolce e chiara è la notte e senza vento,
        E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
        Posa la luna, e di lontan rivela
        Serena ogni montagna. O donna mia,
        Già tace ogni sentiero, e pei balconi
        Rara traluce la notturna lampa:
        Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
        Nelle tue chete stanze; e non ti morde
        Cura nessuna; e già non sai né pensi
        Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
        Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
        Appare in vista, a salutar m'affaccio,
        E l'antica natura onnipossente,
        Che mi fece all'affanno. A te la speme
        Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
        Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
        Questo dì fu solenne: or dà trastulli
        Prendi riposo; e forse ti rimembra
        In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
        Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
        Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
        Quanto a viver mi resti, e qui per terra
        Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
        In così verde etate! Ahi, per la via
        Odo non lunge il solitario canto
        Dell'artigian, che riede a tarda notte,
        Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
        E fieramente mi si stringe il core,
        A pensar come tutto al mondo passa,
        E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
        Il dì festivo, ed al festivo il giorno
        Volgar succede, e se ne porta il tempo
        Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
        Di què popoli antichi? Or dov'è il grido
        Dè nostri avi famosi, e il grande impero
        Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
        Che n'andò per la terra e l'oceano?
        Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
        Il mondo, e più di lor non si ragiona.
        Nella mia prima età, quando s'aspetta
        Bramosamente il dì festivo, or poscia
        Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
        Premea le piume; ed alla tarda notte
        Un canto che s'udia per li sentieri
        Lontanando morire a poco a poco,
        Già similmente mi stringeva il core.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          L'ultimo canto di Saffo

          Placida notte, e verecondo raggio
          Della cadente luna; e tu che spunti
          Fra la tacita selva in su la rupe,
          Nunzio del giorno; oh dilettose e care
          Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
          Sembianze agli occhi miei; già non arride
          Spettacol molle ai disperati affetti.
          Noi l'insueto allor gaudio ravviva
          Quando per l'etra liquido si volve
          E per li campi trepidanti il flutto
          Polveroso dè Noti, e quando il carro,
          Grave carro di Giove a noi sul capo,
          Tonando, il tenebroso aere divide.
          Noi per le balze e le profonde valli
          Natar giova trà nembi, e noi la vasta
          Fuga dè greggi sbigottiti, o d'alto
          Fiume alla dubbia sponda
          Il suono e la vittrice ira dell'onda.
          Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
          Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
          Infinita beltà parte nessuna
          Alla misera Saffo i numi e l'empia
          Sorte non fenno. À tuoi superbi regni
          Vile, o natura, e grave ospite addetta,
          E dispregiata amante, alle vezzose
          Tue forme il core e le pupille invano
          Supplichevole intendo. A me non ride
          L'aprico margo, e dall'eterea porta
          Il mattutino albor; me non il canto
          Dè colorati augelli, e non dè faggi
          Il murmure saluta: e dove all'ombra
          Degl'inchinati salici dispiega
          Candido rivo il puro seno, al mio
          Lubrico piè le flessuose linfe
          Disdegnando sottragge,
          E preme in fuga l'odorate spiagge.
          Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
          Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
          Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
          In che peccai bambina, allor che ignara
          Di misfatto è la vita, onde poi scemo
          Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
          Dell'indomita Parca si volvesse
          Il ferrigno mio stame? Incaute voci
          Spande il tuo labbro: i destinati eventi
          Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
          Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
          Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
          Dè celesti si posa. Oh cure, oh speme
          Dè più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
          Alle amene sembianze eterno regno
          Diè nelle genti; e per virili imprese,
          Per dotta lira o canto,
          Virtù non luce in disadorno ammanto.
          Morremo. Il velo indegno a terra sparto
          Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
          E il crudo fallo emenderà del cieco
          Dispensator dè casi. E tu cui lungo
          Amore indarno, e lunga fede, e vano
          D'implacato desio furor mi strinse,
          Vivi felice, se felice in terra
          Visse nato mortal. Me non asperse
          Del soave licor del doglio avaro
          Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
          Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
          Giorno di nostra età primo s'invola.
          Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
          Della gelida morte. Ecco di tante
          Sperate palme e dilettosi errori,
          Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
          Han la tenaria Diva,
          E l'atra notte, e la silente riva.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

            Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
            Silenziosa luna?
            Sorgi la sera, e vai,
            Contemplando i deserti; indi ti posi.
            Ancor non sei tu paga
            Di riandare i sempiterni calli?
            Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
            Di mirar queste valli?
            Somiglia alla tua vita
            La vita del pastore.
            Sorge in sul primo albore;
            Move la greggia oltre pel campo, e vede
            Greggi, fontane ed erbe;
            Poi stanco si riposa in su la sera:
            Altro mai non ispera.
            Dimmi, o luna: a che vale
            Al pastor la sua vita,
            La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
            Questo vagar mio breve,
            Il tuo corso immortale?
            Vecchierel bianco, infermo,
            Mezzo vestito e scalzo,
            Con gravissimo fascio in su le spalle,
            Per montagna e per valle,
            Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
            Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
            L'ora, e quando poi gela,
            Corre via, corre, anela,
            Varca torrenti e stagni,
            Cade, risorge, e più e più s'affretta,
            Senza posa o ristoro,
            Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
            Colà dove la via
            E dove il tanto affaticar fu volto:
            Abisso orrido, immenso,
            Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
            Vergine luna, tale
            È la vita mortale.
            Nasce l'uomo a fatica,
            Ed è rischio di morte il nascimento.
            Prova pena e tormento
            Per prima cosa; e in sul principio stesso
            La madre e il genitore
            Il prende a consolar dell'esser nato.
            Poi che crescendo viene,
            L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
            Con atti e con parole
            Studiasi fargli core,
            E consolarlo dell'umano stato:
            Altro ufficio più grato
            Non si fa da parenti alla lor prole.
            Ma perché dare al sole,
            Perché reggere in vita
            Chi poi di quella consolar convenga?
            Se la vita è sventura
            Perché da noi si dura?
            Intatta luna, tale
            È lo stato mortale.
            Ma tu mortal non sei,
            E forse del mio dir poco ti cale.
            Pur tu, solinga, eterna peregrina,
            Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
            Questo viver terreno,
            Il patir nostro, il sospirar, che sia;
            Che sia questo morir, questo supremo
            Scolorar del sembiante,
            E perir dalla terra, e venir meno
            Ad ogni usata, amante compagnia.
            E tu certo comprendi
            Il perché delle cose, e vedi il frutto
            Del mattin, della sera,
            Del tacito, infinito andar del tempo.
            Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
            Rida la primavera,
            A chi giovi l'ardore, e che procacci
            Il verno cò suoi ghiacci.
            Mille cose sai tu, mille discopri,
            Che son celate al semplice pastore.
            Spesso quand'io ti miro
            Star così muta in sul deserto piano,
            Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
            Ovver con la mia greggia
            Seguirmi viaggiando a mano a mano;
            E quando miro in cielo arder le stelle;
            Dico fra me pensando:
            A che tante facelle?
            Che fa l'aria infinita, e quel profondo
            Infinito seren? Che vuol dir questa
            Solitudine immensa? Ed io che sono?
            Così meco ragiono: e della stanza
            Smisurata e superba,
            E dell'innumerabile famiglia;
            Poi di tanto adoprar, di tanti moti
            D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
            Girando senza posa,
            Per tornar sempre là donde son mosse;
            Uso alcuno, alcun frutto
            Indovinar non so. Ma tu per certo,
            Giovinetta immortal, conosci il tutto.
            Questo io conosco e sento,
            Che degli eterni giri,
            Che dell'esser mio frale,
            Qualche bene o contento
            Avrà fors'altri; a me la vita è male.
            O greggia mia che posi, oh te beata,
            Che la miseria tua, credo, non sai!
            Quanta invidia ti porto!
            Non sol perché d'affanno
            Quasi libera vai;
            Ch'ogni stento, ogni danno,
            Ogni estremo timor subito scordi;
            Ma più perché giammai tedio non provi.
            Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
            Tu sè queta e contenta;
            E gran parte dell'anno
            Senza noia consumi in quello stato.
            Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
            E un fastidio m'ingombra
            La mente, ed uno spron quasi mi punge
            Sì che, sedendo, più che mai son lunge
            Da trovar pace o loco.
            E pur nulla non bramo,
            E non ho fino a qui cagion di pianto.
            Quel che tu goda o quanto,
            Non so già dir; ma fortunata sei.
            Ed io godo ancor poco,
            O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
            Se tu parlar sapessi, io chiederei:
            Dimmi: perché giacendo
            A bell'agio, ozioso,
            S'appaga ogni animale;
            Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
            Forse s'avess'io l'ale
            Da volar su le nubi,
            E noverar le stelle ad una ad una,
            O come il tuono errar di giogo in giogo,
            Più felice sarei, dolce mia greggia,
            Più felice sarei, candida luna.
            O forse erra dal vero,
            Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
            Forse in qual forma, in quale
            Stato che sia, dentro covile o cuna,
            È funesto a chi nasce il dì natale.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              La vita solitaria

              La mattutina pioggia, allor che l'ale
              Battendo esulta nella chiusa stanza
              La gallinella, ed al balcon s'affaccia
              L'abitator dè campi, e il Sol che nasce
              I suoi tremuli rai fra le cadenti
              Stille saetta, alla capanna mia
              Dolcemente picchiando, mi risveglia;
              E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
              Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
              E le ridenti piagge benedico:
              Poiché voi, cittadine infauste mura,
              Vidi e conobbi assai, là dove segue
              Odio al dolor compagno; e doloroso
              Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
              Benché scarsa pietà pur mi dimostra
              Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
              Verso me più cortese! E tu pur volgi
              Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
              Le sciagure e gli affanni, alla reina
              Felicità servi, o natura. In cielo,
              In terra amico agl'infelici alcuno
              E rifugio non resta altro che il ferro.
              Talor m'assido in solitaria parte,
              Sovra un rialto, al margine d'un lago
              Di taciturne piante incoronato.
              Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
              La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
              Ed erba o foglia non si crolla al vento,
              E non onda incresparsi, e non cicala
              Strider, né batter penna augello in ramo,
              Né farfalla ronzar, né voce o moto
              Da presso né da lunge odi né vedi.
              Tien quelle rive altissima quiete;
              Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
              Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
              Giaccian le membra mie, né spirto o senso
              Più le commova, e lor quiete antica
              Cò silenzi del loco si confonda.
              Amore, amore, assai lungi volasti
              Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
              Anzi rovente. Con sua fredda mano
              Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
              Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
              Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
              E irrevocabil tempo, allor che s'apre
              Al guardo giovanil questa infelice
              Scena del mondo, e gli sorride in vista
              Di paradiso. Al garzoncello il core
              Di vergine speranza e di desio
              Balza nel petto; e già s'accinge all'opra
              Di questa vita come a danza o gioco
              Il misero mortal. Ma non sì tosto,
              Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
              Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
              Non altro convenia che il pianger sempre.
              Pur se talvolta per le piagge apriche,
              Su la tacita aurora o quando al sole
              Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
              Scontro di vaga donzelletta il viso;
              O qualor nella placida quiete
              D'estiva notte, il vagabondo passo
              Di rincontro alle ville soffermando,
              L'erma terra contemplo, e di fanciulla
              Che all'opre di sua man la notte aggiunge
              Odo sonar nelle romite stanze
              L'arguto canto; a palpitar si move
              Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
              Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano
              Ogni moto soave al petto mio.
              O cara luna, al cui tranquillo raggio
              Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
              Alla mattina il cacciator, che trova
              L'orme intricate e false, e dai covili
              Error vario lo svia; salve, o benigna
              Delle notti reina. Infesto scende
              Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
              A deserti edifici, in su l'acciaro
              Del pallido ladron ch'a teso orecchio
              Il fragor delle rote e dè cavalli
              Da lungi osserva o il calpestio dè piedi
              Su la tacita via; poscia improvviso
              Col suon dell'armi e con la rauca voce
              E col funereo ceffo il core agghiaccia
              Al passegger, cui semivivo e nudo
              Lascia in breve trà sassi. Infesto occorre
              Per le contrade cittadine il bianco
              Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
              Va radendo le mura e la secreta
              Ombra seguendo, e resta, e si spaura
              Delle ardenti lucerne e degli aperti
              Balconi. Infesto alle malvage menti,
              A me sempre benigno il tuo cospetto
              Sarà per queste piagge, ove non altro
              Che lieti colli e spaziosi campi
              M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
              Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
              Raggio accusar negli abitati lochi,
              Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
              Scopriva umani aspetti al guardo mio.
              Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
              Veleggiar tra le nubi, o che serena
              Dominatrice dell'etereo campo,
              Questa flebil riguardi umana sede.
              Me spesso rivedrai solingo e muto
              Errar pè boschi e per le verdi rive,
              O seder sovra l'erbe, assai contento
              Se core e lena a sospirar m'avanza.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                La ginestra

                Qui su l'arida schiena
                Del formidabil monte
                Sterminator Vesevo,
                La qual null'altro allegra arbor né fiore,
                Tuoi cespi solitari intorno spargi,
                Odorata ginestra,
                Contenta dei deserti. Anco ti vidi
                Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
                Che cingon la cittade
                La qual fu donna dè mortali un tempo,
                E del perduto impero
                Par che col grave e taciturno aspetto
                Faccian fede e ricordo al passeggero.
                Or ti riveggo in questo suol, di tristi
                Lochi e dal mondo abbandonati amante,
                E d'afflitte fortune ognor compagna.
                Questi campi cosparsi
                Di ceneri infeconde, e ricoperti
                Dell'impietrata lava,
                Che sotto i passi al peregrin risona;
                Dove s'annida e si contorce al sole
                La serpe, e dove al noto
                Cavernoso covil torna il coniglio;
                Fur liete ville e colti,
                E biondeggiàr di spiche, e risonaro
                Di muggito d'armenti;
                Fur giardini e palagi,
                Agli ozi dè potenti
                Gradito ospizio; e fur città famose
                Che coi torrenti suoi l'altero monte
                Dall'ignea bocca fulminando oppresse
                Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
                Una ruina involve,
                Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
                I danni altrui commiserando, al cielo
                Di dolcissimo odor mandi un profumo,
                Che il deserto consola. A queste piagge
                Venga colui che d'esaltar con lode
                Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
                È il gener nostro in cura
                All'amante natura. E la possanza
                Qui con giusta misura
                Anco estimar potrà dell'uman seme,
                Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
                Con lieve moto in un momento annulla
                In parte, e può con moti
                Poco men lievi ancor subitamente
                Annichilare in tutto.
                Dipinte in queste rive
                Son dell'umana gente
                Le magnifiche sorti e progressive .
                Qui mira e qui ti specchia,
                Secol superbo e sciocco,
                Che il calle insino allora
                Dal risorto pensier segnato innanti
                Abbandonasti, e volti addietro i passi,
                Del ritornar ti vanti,
                E procedere il chiami.
                Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
                Di cui lor sorte rea padre ti fece,
                Vanno adulando, ancora
                Ch'a ludibrio talora
                T'abbian fra sé. Non io
                Con tal vergogna scenderò sotterra;
                Ma il disprezzo piuttosto che si serra
                Di te nel petto mio,
                Mostrato avrò quanto si possa aperto:
                Ben ch'io sappia che obblio
                Preme chi troppo all'età propria increbbe.
                Di questo mal, che teco
                Mi fia comune, assai finor mi rido.
                Libertà vai sognando, e servo a un tempo
                Vuoi di novo il pensiero,
                Sol per cui risorgemmo
                Della barbarie in parte, e per cui solo
                Si cresce in civiltà, che sola in meglio
                Guida i pubblici fati.
                Così ti spiacque il vero
                Dell'aspra sorte e del depresso loco
                Che natura ci diè. Per questo il tergo
                Vigliaccamente rivolgesti al lume
                Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
                Vil chi lui segue, e solo
                Magnanimo colui
                Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
                Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
                Uom di povero stato e membra inferme
                Che sia dell'alma generoso ed alto,
                Non chiama sé né stima
                Ricco d'or né gagliardo,
                E di splendida vita o di valente
                Persona infra la gente
                Non fa risibil mostra;
                Ma sé di forza e di tesor mendico
                Lascia parer senza vergogna, e noma
                Parlando, apertamente, e di sue cose
                Fa stima al vero uguale.
                Magnanimo animale
                Non credo io già, ma stolto,
                Quel che nato a perir, nutrito in pene,
                Dice, a goder son fatto,
                E di fetido orgoglio
                Empie le carte, eccelsi fati e nove
                Felicità, quali il ciel tutto ignora,
                Non pur quest'orbe, promettendo in terra
                A popoli che un'onda
                Di mar commosso, un fiato
                D'aura maligna, un sotterraneo crollo
                Distrugge sì, che avanza
                A gran pena di lor la rimembranza.
                Nobil natura è quella
                Che a sollevar s'ardisce
                Gli occhi mortali incontra
                Al comun fato, e che con franca lingua,
                Nulla al ver detraendo,
                Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
                E il basso stato e frale;
                Quella che grande e forte
                Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
                Fraterne, ancor più gravi
                D'ogni altro danno, accresce
                Alle miserie sue, l'uomo incolpando
                Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
                Che veramente è rea, che dè mortali
                Madre è di parto e di voler matrigna.
                Costei chiama inimica; e incontro a questa
                Congiunta esser pensando,
                Siccome è il vero, ed ordinata in pria
                L'umana compagnia,
                Tutti fra sé confederati estima
                Gli uomini, e tutti abbraccia
                Con vero amor, porgendo
                Valida e pronta ed aspettando aita
                Negli alterni perigli e nelle angosce
                Della guerra comune. Ed alle offese
                Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
                Al vicino ed inciampo,
                Stolto crede così qual fora in campo
                Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
                Incalzar degli assalti,
                Gl'inimici obbliando, acerbe gare
                Imprender con gli amici,
                E sparger fuga e fulminar col brando
                Infra i propri guerrieri.
                Così fatti pensieri
                Quando fien, come fur, palesi al volgo,
                E quell'orror che primo
                Contra l'empia natura
                Strinse i mortali in social catena,
                Fia ricondotto in parte
                Da verace saper, l'onesto e il retto
                Conversar cittadino,
                E giustizia e pietade, altra radice
                Avranno allor che non superbe fole,
                Ove fondata probità del volgo
                Così star suole in piede
                Quale star può quel ch'ha in error la sede.
                Sovente in queste rive,
                Che, desolate, a bruno
                Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
                Seggo la notte; e su la mesta landa
                In purissimo azzurro
                Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
                Cui di lontan fa specchio
                Il mare, e tutto di scintille in giro
                Per lo vòto seren brillare il mondo.
                E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
                Ch'a lor sembrano un punto,
                E sono immense, in guisa
                Che un punto a petto a lor son terra e mare
                Veracemente; a cui
                L'uomo non pur, ma questo
                Globo ove l'uomo è nulla,
                Sconosciuto è del tutto; e quando miro
                Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
                Nodi quasi di stelle,
                Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
                E non la terra sol, ma tutte in uno,
                Del numero infinite e della mole,
                Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
                O sono ignote, o così paion come
                Essi alla terra, un punto
                Di luce nebulosa; al pensier mio
                Che sembri allora, o prole
                Dell'uomo? E rimembrando
                Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
                Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
                Che te signora e fine
                Credi tu data al Tutto, e quante volte
                Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
                Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
                Per tua cagion, dell'universe cose
                Scender gli autori, e conversar sovente
                Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
                Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
                Fin la presente età, che in conoscenza
                Ed in civil costume
                Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
                Mortal prole infelice, o qual pensiero
                Verso te finalmente il cor m'assale?
                Non so se il riso o la pietà prevale.
                Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
                Cui là nel tardo autunno
                Maturità senz'altra forza atterra,
                D'un popol di formiche i dolci alberghi,
                Cavati in molle gleba
                Con gran lavoro, e l'opre
                E le ricchezze che adunate a prova
                Con lungo affaticar l'assidua gente
                Avea provvidamente al tempo estivo,
                Schiaccia, diserta e copre
                In un punto; così d'alto piombando,
                Dall'utero tonante
                Scagliata al ciel profondo,
                Di ceneri e di pomici e di sassi
                Notte e ruina, infusa
                Di bollenti ruscelli
                O pel montano fianco
                Furiosa tra l'erba
                Di liquefatti massi
                E di metalli e d'infocata arena
                Scendendo immensa piena,
                Le cittadi che il mar là su l'estremo
                Lido aspergea, confuse
                E infranse e ricoperse
                In pochi istanti: onde su quelle or pasce
                La capra, e città nove
                Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
                Son le sepolte, e le prostrate mura
                L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
                Non ha natura al seme
                Dell'uom più stima o cura
                Che alla formica: e se più rara in quello
                Che nell'altra è la strage,
                Non avvien ciò d'altronde
                Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
                Ben mille ed ottocento
                Anni varcàr poi che spariro, oppressi
                Dall'ignea forza, i popolati seggi,
                E il villanello intento
                Ai vigneti, che a stento in questi campi
                Nutre la morta zolla e incenerita,
                Ancor leva lo sguardo
                Sospettoso alla vetta
                Fatal, che nulla mai fatta più mite
                Ancor siede tremenda, ancor minaccia
                A lui strage ed ai figli ed agli averi
                Lor poverelli. E spesso
                Il meschino in sul tetto
                Dell'ostel villereccio, alla vagante
                Aura giacendo tutta notte insonne,
                E balzando più volte, esplora il corso
                Del temuto bollor, che si riversa
                Dall'inesausto grembo
                Su l'arenoso dorso, a cui riluce
                Di Capri la marina
                E di Napoli il porto e Mergellina.
                E se appressar lo vede, o se nel cupo
                Del domestico pozzo ode mai l'acqua
                Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
                Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
                Di lor cose rapir posson, fuggendo,
                Vede lontan l'usato
                Suo nido, e il picciol campo,
                Che gli fu dalla fame unico schermo,
                Preda al flutto rovente,
                Che crepitando giunge, e inesorato
                Durabilmente sovra quei si spiega.
                Torna al celeste raggio
                Dopo l'antica obblivion l'estinta
                Pompei, come sepolto
                Scheletro, cui di terra
                Avarizia o pietà rende all'aperto;
                E dal deserto foro
                Diritto infra le file
                Dei mozzi colonnati il peregrino
                Lunge contempla il bipartito giogo
                E la cresta fumante,
                Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
                E nell'orror della secreta notte
                Per li vacui teatri,
                Per li templi deformi e per le rotte
                Case, ove i parti il pipistrello asconde,
                Come sinistra face
                Che per vòti palagi atra s'aggiri,
                Corre il baglior della funerea lava,
                Che di lontan per l'ombre
                Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
                Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
                Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
                Dopo gli avi i nepoti,
                Sta natura ognor verde, anzi procede
                Per sì lungo cammino
                Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
                Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
                E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
                E tu, lenta ginestra,
                Che di selve odorate
                Queste campagne dispogliate adorni,
                Anche tu presto alla crudel possanza
                Soccomberai del sotterraneo foco,
                Che ritornando al loco
                Già noto, stenderà l'avaro lembo
                Su tue molli foreste. E piegherai
                Sotto il fascio mortal non renitente
                Il tuo capo innocente:
                Ma non piegato insino allora indarno
                Codardamente supplicando innanzi
                Al futuro oppressor; ma non eretto
                Con forsennato orgoglio inver le stelle,
                Né sul deserto, dove
                E la sede e i natali
                Non per voler ma per fortuna avesti;
                Ma più saggia, ma tanto
                Meno inferma dell'uom, quanto le frali
                Tue stirpi non credesti
                O dal fato o da te fatte immortali.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Alla primavera

                  Perché i celesti danni
                  Ristori il sole, e perché l'aure inferme
                  Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
                  Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
                  Credano il petto inerme
                  Gli augelli al vento, e la diurna luce
                  Novo d'amor desio, nova speranza
                  Nè penetrati boschi e fra le sciolte
                  Pruine induca alle commosse belve;
                  Forse alle stanche e nel dolor sepolte
                  Umane menti riede
                  La bella età, cui la sciagura e l'atra
                  Face del ver consunse
                  Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
                  Di febo i raggi al misero non sono
                  In sempiterno? Ed anco,
                  Primavera odorata, inspiri e tenti
                  Questo gelido cor, questo ch'amara
                  Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
                  Vivi tu, vivi, o santa
                  Natura? Vivi e il dissueto orecchio
                  Della materna voce il suono accoglie?
                  Già di candide ninfe i rivi albergo,
                  Placido albergo e specchio
                  Furo i liquidi fonti. Arcane danze
                  D'immortal piede i ruinosi gioghi
                  Scossero e l'ardue selve (oggi romito
                  Nido dè venti): e il pastorel ch'all'ombre
                  Meridiane incerte ed al fiorito
                  Margo adducea dè fiumi
                  Le sitibonde agnelle, arguto carme
                  Sonar d'agresti Pani
                  Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
                  Vide, e stupì, che non palese al guardo
                  La faretrata Diva
                  Scendea nè caldi flutti, e dall'immonda
                  Polve tergea della sanguigna caccia
                  Il niveo lato e le verginee braccia.
                  Vissero i fiori e l'erbe,
                  Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
                  Aure, le nubi e la titania lampa
                  Fur dell'umana gente, allor che ignuda
                  Te per le piagge e i colli,
                  Ciprigna luce, alla deserta notte
                  Con gli occhi intenti il viator seguendo,
                  Te compagna alla via, te dè mortali
                  Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
                  Cittadini consorzi e le fatali
                  Ire fuggendo e l'onte,
                  Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
                  Selve remoto accolse,
                  Viva fiamma agitar l'esangui vene,
                  Spirar le foglie, e palpitar segreta
                  Nel doloroso amplesso.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    La quiete dopo la tempesta

                    Passata è la tempesta:
                    Odo augelli far festa, e la gallina,
                    Tornata in su la via,
                    Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
                    Rompe là da ponente, alla montagna;
                    Sgombrasi la campagna,
                    E chiaro nella valle il fiume appare.
                    Ogni cor si rallegra, in ogni lato
                    Risorge il romorio
                    Torna il lavoro usato.
                    L'artigiano a mirar l'umido cielo,
                    Con l'opra in man, cantando,
                    Fassi in su l'uscio; a prova
                    Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
                    Della novella piova;
                    E l'erbaiuol rinnova
                    Di sentiero in sentiero
                    Il grido giornaliero.
                    Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
                    Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
                    Apre terrazzi e logge la famiglia:
                    E, dalla via corrente, odi lontano
                    Tintinnio di sonagli; il carro stride
                    Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
                    Si rallegra ogni core.
                    Sì dolce, sì gradita
                    Quand'è, com'or, la vita?
                    Quando con tanto amore
                    L'uomo à suoi studi intende?
                    O torna all'opre? O cosa nova imprende?
                    Quando dè mali suoi men si ricorda?
                    Piacer figlio d'affanno;
                    Gioia vana, ch'è frutto
                    Del passato timore, onde si scosse
                    E paventò la morte
                    Chi la vita abborria;
                    Onde in lungo tormento,
                    Fredde, tacite, smorte,
                    Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
                    Mossi alle nostre offese
                    Folgori, nembi e vento.
                    O natura cortese,
                    Son questi i doni tuoi,
                    Questi i diletti sono
                    Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
                    È diletto fra noi.
                    Pene tu spargi a larga mano; il duolo
                    Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
                    Che per mostro e miracolo talvolta
                    Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
                    Prole cara agli eterni! Assai felice
                    Se respirar ti lice
                    D'alcun dolor: beata
                    Se te d'ogni dolor morte risana.
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