Poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz
Or son molti e molti anni
che in un regno in riva al mare
viveva una fanciulla che col nome
chiamerete di Annabel Lee:
e viveva questa fanciulla con non altro pensiero
che d'amarmi e d'essere amata da me.
Io ero un bimbo e lei una bimba,
in questo regno in riva al mare;
ma ci amavamo d'un amore ch'era più che amore-
io e la mia Annabel Lee –
d'un amore che gli alati serafini in cielo
invidiavano a lei ed a me.
E fu per questo che –oh, molto tempo fa-
in questo regno in riva al mare
un vento soffiò da una nube, raggelando
la mia bella Annabel Lee;
così che vennero i suoi nobili parenti
e la portarono da me lontano
per rinchiuderla in un sepolcro
in questo regno in riva al mare.
Gli angeli, non così felici in cielo come noi,
a lei e a me portarono invidia –
oh sì! E fu per questo ( e tutti ben lo sanno
in questo regno in riva al mare)
che quel vento irruppe una notte dalla nube
raggelando e uccidendo la mia bella Annabel Lee.
Ma molto era più forte il nostro amore
che l'amor d'altri di noi più grandi-
che l'amor d'altri di noi più savi-
e né gli angeli lassù nel cielo
né i demoni dentro il profondo mare
mai potran separare la mia anima dall'anima
della bella Annabel Lee: -
giacché mai raggia la luna che non mi porti sogni
della bella Annabel Lee;
e mai stella si leva ch'io non senta i fulgenti occhi
della bella Annabel Lee: -
e così, nelle notti, al fianco io giaccio
del mio amore – mio amore – mia vita e mia sposa,
nel suo sepolcro lì in riva al mare,
nella sua tomba in riva al risonante mare.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Inno

    Al mattino, al meriggio, al fosco crepuscolo -
    tu hai udito il mio inno, Maria!
    In affanno e letizia - nel bene e nel male -
    tu, madre di Dio, ancora rimani con me!
    Quando più liete per me scorrevan le Ore,
    e non una nuvola oscurava il mio cielo,
    la tua grazia trepida guidava a te
    l'anima mia perché non si smarrisse;
    e ora che il Destino per me più addensa
    le sue tempeste e in me confonde presente
    e passato, fa' che almeno risplenda il futuro
    e per me irraggi dolce speranza di te!
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      O bella isola, che dal più bel fiore
      prendi il tuo nome, fra tutti il più gentile!
      Quante memorie di raggianti ore
      da te si ridestano al tuo solo apparire!
      E parvenze di quale perduta felicità!
      E pensieri di quali speranze sepolte!
      E visioni di una fanciulla, sui tuoi verdi
      pendii, che non è più, che non è più!
      Non più! Ahimè, quel magico e triste suono
      che tutto trasmuta! Non più loderò i tuoi incanti,
      non più il ricordo di te! Un esecrato suolo
      d'ora in avanti riterrò il tuo lido fiorito,
      o isola giacintea! O purpurea Zante!
      Isola d'oro! Fior di Levante!
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        A Elena (1835)

        Elena, la tua bellezza è per me
        come quei navigli nicei d'un tempo
        che, mollemente, sull'odorato mare
        riportavano il pellegrino stanco d'errare
        alla sua sponda natia.

        Da tempo avezzo a disperati mari,
        la tua chioma di giacinto, il tuo classico volto,
        la tua grazia di Naiade riportano me anche in patria,
        a quella gloria che fu la Grecia,
        a quella maestà che fu Roma.

        Là, nel rilucente vano della finestra,
        come statua eretta io ti vedo,
        con in mano la tua lampada d'agata!
        Ah, Psyche, qui venuta dalle regioni
        che son Terra Santa.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Il corvo

          Era una cupa mezzanotte e mentre stanco meditavo

          Su bizzarri volumi di un sapere remoto,

          Mentre, il capo reclino, mi ero quasi assopito,

          D'improvviso udii bussare leggermente alla porta.

          "C'è qualcuno" mi dissi " che bussa alla mia porta

          Solo questo e nulla più. "

          Ah, ricordo chiaramente quel dicembre desolato,

          Dalle braci morenti scorgevo i fantasmi al suolo.

          Bramavo il giorno e invano domandavo ai miei libri

          Un sollievo al dolore per la perduta Lenore,

          La rara radiosa fanciulla che gli angeli chiamano Lenore

          E che nessuno, qui, chiamerà mai più.

          E al serico, triste, incerto fruscio delle purpuree tende

          Rabbrividivo, colmo di assurdi tenori inauditi,

          Ebbene ripetessi, per acquietare i battiti del cuore:

          "È qualcuno alla porta, che chiede di entrare,

          Qualcuno attardato, che mi chiede di entrare.

          Ecco: è questo e nulla più"

          Poi mi feci coraggio e senza più esitare

          "Signore, " dissi "o Signora, vi prego, perdonatemi,

          Ma ero un po' assopito ed il vostro lieve tocco,

          Il vostro così debole bussare mi ha fatto dubitare

          Di avervi veramente udito". Qui spalancai la porta:

          C'erano solo tenebre e nulla più. "

          Nelle tenebre a lungo, gli occhi fissi in profondo,

          Stupefatto, impaurito sognai sogni che mai

          Si era osato sognare: ma nessuno violò

          Quel silenzio e soltanto una voce, la mia,

          Bisbigliò la parola "Lenore" e un eco rispose:

          "Lenore". Solo quello e nulla più.

          Rientrai nella mia stanza, l'anima che bruciava.

          Ma ben presto, di nuovo, si udì battere fuori,

          E più forte di prima. "Certo" dissi "è qualcosa

          Proprio alla mia finestra: esplorerò il mistero,

          Renderò pace al cuore, esplorerò il mistero.

          Ma è solo il vento, nulla più. "

          Allora spalancai le imposte e sbattendo le ali

          Entrò un Corvo maestoso dei santi tempi antichi

          Che non fece un inchino, né si fermò un istante.

          E con aria di dame o di gran gentiluomo

          Si appollaiò su un busto di Palladie sulla porta

          Si posò, si sedette, e nulla più.

          Poi quell'uccello d'ebano, col suo austero decoro,

          Indusse ad un sorriso le mie fantasie meste,

          "Perché" dissi "rasata sia la tua cresta, un vile

          Non sei, orrido, antico Corvo venuto da notturne rive.

          Qual è il tuo nome nobile sulle plutonie rive? "

          Disse il Corvo: "Mai più".

          Ma quel corvo posato solitario sul placido busto,

          Come se tutta l'anima versasse in quelle parole,

          Altro non disse, immobile, senza agitare piuma,

          Finché non mormorai: "Altri amici di già sono volati via:

          Lui se ne andrà domani, volando con le mie speranze"

          Allora disse il Corvo: "Mai più".

          Trasalii al silenzio interrotto da un dire tanto esatto,

          "Parole" mi dissi "che sono la sua scorta sottratta

          A un padrone braccato dal Disastro, perseguitato

          Finché un solo ritornello non ebbe i suoi canti,

          Un ritornello cupo, i canti funebri della sua speranza:

          Mai, mai più".

          Rasserenando ancora il Corvo le mie fantasie,

          Sospinsi verso di lui, verso quel busto e la porta,

          Una poltrona dove affondai tra fantasie diverse,

          Pensando cosa mai l'infausto uccello del tempo antico.

          Cosa mai quel sinistro, infausto e torvo anomale antico

          Potesse voler dire gracchiando "Mai più".

          Sedevo in congetture senza dire parola

          All'uccello i cui occhi di fuoco mi ardevano in cuore;

          Cercavo di capire, chino il capo sul velluto

          Dei cuscini dove assidua la lampada occhieggiava,

          Sul viola del velluto dove la lampada luceva

          E che purtroppo Lei non premerà mai più.

          Parve più densa l'aria, profumata da un occulto

          Turibolo, oscillato da leggeri serafini

          Tintinnanti sul tappeto. "Infelice" esclamai "Dio ti manda

          Un nepente dagli angeli a lenire il ricordo di Lei,

          Dunque bevilo e dimentica la perduta tua Lenore! "

          Disse il Corvo "Mai più".

          "Profeta, figlio del male e tuttavia profeta, se uccello

          Tu sei o demonio, se il maligno" io dissi "ti manda

          O la tempesta, desolato ma indomito su una deserta landa

          Incantata, in questa casa inseguita dall'Onore,

          Io ti imploro, c'è un balsamo, dimmi, un balsamo in Galaad? "

          Disse il Corvo: "Mai più".

          "Profeta, figlio del male e tuttavia profeta, se uccello

          Tu sei o demonio, per il Cielo che si china su noi,

          Per il Dio che entrambi adoriamo, dì a quest'anima afflitta

          Se nell'Eden lontano riavrà quella santa fanciulla,

          La rara raggiante fanciulla che gli angeli chiamano Lenore".

          Disse il Corvo: "Mai più".

          "Siano queste parole d'addio" alzandomi gridai

          "uccello o creatura del male, ritorna alla tempesta,

          Alle plutonie rive e non lasciare una sola piuma in segno

          Della tua menzogna. Intatta lascia la mia solitudine,

          Togli il becco dal mio cuore e la tua figura dalla porta"

          Disse il Corvo: "Mai più".

          E quel Corvo senza un volo siede ancora, siede ancora

          Sul pallido busto di Pallade sulla mia porta.

          E sembrano i suoi occhi quelli di un diavolo sognante

          E la luce della lampada getta a terra la sua ombra.

          E l'anima mia dall'ombra che galleggia sul pavimento

          Non si solleverà "Mai più" mai più.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Elizabet

            Elizabet - a me par giusto sommamente
            (logica e comun senso così ordinando)
            che nel tuo libro per primo si scriva il tuo nome,
            checché ne pensino Zenone ed altri saggi;
            ed io ho poi altri motivi per così fare,
            oltre al mio innato gusto per la contraddizione:
            ciascun poeta - se poeta - nel suo tener dietro
            alle vaganti Muse, per i recessi del Vero e del Finto,
            ha ben poco studiato la sua parte,
            letto quasi nulla, scritto ancora meno - è, in breve,
            uno sciocco senz'anima, senza sensi e senza l'arte,
            se mostra di ignorare una norma così importante,
            perfino adoperata nei compiti scolastici -
            che si chiama - il nome greco non ricordo
            (ma quale sia, il senso suo non muta):
            Sempre scriver prima quel che nel cuore hai più in alto.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              A f.

              O mia amata, fra i dolenti affanni
              così folti sul mio terrestre sentiero -
              triste, ahimè! - dove mai non cresce
              un fiore, mai alcuna rosa solitaria -
              trova sollievi almeno l'anima mia
              in molti sogni di te: e conosce allora
              un Eden di blando riposo.

              Così, dal ricordo di te si distilla
              in me un'isola d'incanto, lontana,
              in mezzo a un tumultuante mare -
              fremente oceano e immenso, esposto
              ad ogni tempesta - nel mentre che, intanto,
              i più sereni cieli, continuamente,
              solo sorridono su quell'isola fulgente.
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                A una in Paradiso

                Eri per me quel tutto, amore,
                per cui si struggeva la mia anima -
                una verde isola nel mare, amore,
                una fonte limpida, un'ara
                di magici frutti e fiori adornata:
                e tutti erano miei quei fiori.

                Ah, sogno splendido e breve!
                Stellata speranza, appena apparsa
                e subito sopraffatta!
                Una voce del Futuro mi grida
                "Avanti, avanti! " - ma è sul Passato
                (oscuro gugite! ) che la mia anima aleggia
                tacita, immobile, sgomenta!
                Perché mai più, oh, mai più per me
                risplenderà quella luce di Vita!
                Mai più - mai più - mai più -
                (è quel che il mare ripete
                alle sabbie del lido) - mai più
                rifiorirà un albero percosso dal fulmine,
                nè potrà più elevarsi un'aquila ferita.

                Vivo, trasognato, giorni estatici,
                e tutte le mie notturne visioni
                mi riportano ai tuoi grigi occhi di luce,
                a là dove tu stessa ti porti e risplendi,
                oh, in quali eteree danze,
                lungo rivi che scorrono perenni.
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  La Fattoria di Bradin

                  Pioggia di guerra
                  sulle teste dei soldati
                  Nel baratro di una guerra da cani
                  Pelle segnata e ferita
                  Sguardi in fuga oltre ogni frastuono

                  Pioggia di guerra
                  sulle teste dei bambini
                  Con il peso dell'odio negli occhi
                  Giochi di guerra fuori nei cortili
                  Ronzio di mosche
                  su orecchie sorde e bocche di fame

                  Pioggia di guerra
                  su corpi nudi di donne
                  Violenza carnale senza passione
                  Urlo di paura
                  sibilo di proiettile
                  Al di là della linea di confine.

                  Pioggia di guerra
                  sulle case di periferie
                  Bruciate in attimi di lucido bang umano
                  Bomba odio senza avviso
                  E distruzione intorno alla fattoria di Bradin

                  Pioggia di guerra
                  Sul cortile della stazione
                  Treni in fiamme sui ponti di ferro
                  Crateri e buche nelle strade deserte
                  Acqua veleno da Pristina a Novi Sad

                  Pioggia di guerra
                  Bagnati di odio
                  Avanzano eserciti fantasma
                  Senza un nemico da scovare
                  Senza bersagli da colpire
                  Senza fiori da regalare

                  Pioggia di guerra
                  sui carri che vagano nei campi
                  In file interminabili di speranza e fatica
                  Oltre ogni muro di indifferenza
                  La sera
                  sugli altipiani
                  tende e stracci
                  Chiazze di dolore perse in un lembo di terra ferita

                  Pioggia di guerra
                  Su questa terra di nessuno
                  tra una parte e l'altra del mare
                  Terra contesa col sangue di corpi in pace
                  C'è pioggia negli sguardi stanchi e tristi
                  con ancora un pezzo di vita da buttare

                  pioggia di piombo
                  pioggia di fuoco
                  pioggia di odio
                  pioggia di nulla

                  bagnati da una pioggia assassina
                  senza più vita da vivere
                  sono uomini e donne

                  Perduti.
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Hai chiuso gli occhi

                    Nasce una notte
                    piena di finte buche,
                    di suoni morti
                    come di sugheri
                    di reti calate nell'acqua.

                    Le tue mani si fanno come un soffio
                    d'inviolabili lontananze,
                    inafferrabili come le idee.

                    E l'equivoco della luna
                    e il dondolio, dolcissimi,
                    se vuoi posarmele sugli occhi,
                    toccano l'anima.

                    Sei la donna che passa
                    come una foglia.

                    E lasci agli alberi un fuoco d'autunno.
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