Quando eri chino con la tua pupilla, con la nuca poggiavi su ginocchia di vuoto oscuro, in cerca della sua ombra e del suo corpo ché si rivelasse tutt'una luce sola, notte fonda, il fondo era restare in superficie dell'abisso, dal quale risalivi – vedere ciechi vivere la morte! – poi fu la resa una resurrezione: l'alba nel suo colore fu fenice, rialzatasi da ceneri interiori, sangue sfumato che non fu ferita, danzò sul filo d'azzurre purezze, e ritoccai le nuvole col dito di uno sguardo che piano la raggiunse premendo sulla sua scarna magrezza, lo stacco di un cordone ombelicale rimise al mondo la sua creatura, il tempo fu di nuovo fatto madre, il sonno della nascita provò su ossa di cuscini rivoltati invano per profili incontentabili – ché era il centro, il davanti, la sua posa, il sole, il volto neonato di luce, decapitato che ricreò il corpo, il collo, il tronco, gli arti, coi suoi raggi, e, pudico, svelò la sua, di anima, nell'immersione fioca dei riflessi.
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