Chinavano le nuche tutte quante alla carezza azzurra dell'altissimo fingeva di inarcarsi all'orizzonte per contemplare e poi bere gli abissi tolta allo specchio, dopo, la sua maschera, calato giù il sipario del suo sonno, quella palpebra bionda che era luce, e svelata l'essenza ch'era nera, non più ombra, infinito di pupilla a vedere in sé stesso il sonno veglia ché non s'accenda più luce di un sogno, ché non risorga da notturne ceneri la fenice lunare del suo cranio che non s'acquisti vista nei riflessi di lacrime di luce delle stelle. Voi non sapete, spighe, quanto male provocate al suo palmo che s'abbassa fin su alle punte che pungono, spine, emorragia che nasce nel tramonto, ognuna che risponde alla vicina, ognuna è persa come in una folla, ed è in un mare d'oro ch'è scaduto dal valore della vita alla morte, ognuna è scheletro, lisca di pesce, inseppellita fra le onde di sé, aspetta il vento che gli sia da nuoto, aspetta infine la bocca del sole che in opaco respiro nel discreto svegliarsi del colore dica piano l'infinita parola del silenzio che le arrivi con l'eco del suo raggio mentre in preghiera ha la resurrezione l'inferno è il bruno ed è tutta la terra e la luce che arriva una catabasi.
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