Poesie inserite da Andrea De Candia

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Scritta da: Andrea De Candia
L'eco lontana portata nel vento
si infrangerà contro pareti ignote
i confini rinascono nel sangue,
ogni fiato una vena capillare,
credi il silenzio sia l'inosservanza
sotto cui passi lucido ed illeso,
credi la schiavitù no, non ti chiami,
il padrone del sonno che riallaccia
il guinzaglio dell'ombra finalmente
alla cuccia del letto, credi pure
che ancora non vi sia da far domande –
perché non temo di restare solo
nell'interiorità che si fa abisso.
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    Scritta da: Andrea De Candia
    Non si continua alcuna discendenza.
    Nessun cerchio perfetto che si chiude,
    collo di una civetta che si illude
    di non muovere almeno la sua testa,
    è un voltarsi indietro ad un rimando,
    è un andare avanti e abbandonarlo.
    Letto di morte come sala parto.
    I sacerdoti furono le ostetriche.
    Con le doglie degli ultimi respiri,
    dall'utero del mio corpo finale,
    si credette di partorire l'anima,
    si mise a un altro mondo nessun figlio.
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      Scritta da: Andrea De Candia
      Più nessuna speranza.
      Roghi di stelle accesi in solitudine,
      lacrime imbalsamate nella stasi
      del tempo, dove l'uomo finge morte
      col sonno, specchio di ciò ch'è nell'alto,
      sul palcoscenico intimo del letto,
      unico ruolo e prove innumerate,
      più nessuna speranza
      se il carbone compatto della Notte
      non cede mai a trasformarsi in cenere.
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        Scritta da: Andrea De Candia
        Se è vuoto e solitudine,
        se nelle tane delle proprie camere,
        non c'è cooperazione, a chi consegna
        la briciola di pane del mio corpo,
        la formica dell'ombra?
        Vaga per il deserto della strada,
        il suo carbone ritenuto folle,
        persegue la mia fiamma, ostinatissima
        come volesse vivere
        nel per sempre di ogni istante in più,
        trova soltanto il vento ch'è fraterno,
        parete che s'aggiorna e che s'abbatte
        per sé stessa, per lasciarlo passare,
        e alle sue spalle sembra continuare
        l'immotivato – in apparenza – pianto.
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          Scritta da: Andrea De Candia
          Qualcuno a cui gettare la propria ombra,
          succhia la vita del moto dai piedi
          dai seni delle suole
          che risentono dello sgonfiamento.
          L'ombra è la propria morte nella Vita.
          È il fardello-cadavere
          da dovere portare
          fino alla bara del letto finale.
          È una preghiera su cui il labbro affonda,
          è la parola che ritarda ancora
          l'affiorare dal magma dell'inchiostro.
          È un'inversione all'aldilà del Tempo:
          io, biondo nella mia pelle, divento
          formica che trascina la sua briciola.
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            Scritta da: Andrea De Candia
            Versa il tuo caffè d'ossa
            Luna, tazza che medita i suoi cocci
            fra l'oblio e l'agguato
            che sei esistita lo dimostra il manico,
            banco celeste a cui come clienti
            si affidano gli insonni per placare
            sui labbri delle palpebre la sete
            della luce, dell'ultima ch'è ancora
            gratis; le monetine delle stelle
            lasciate lì, di tutti e di nessuno.
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              Scritta da: Andrea De Candia
              Mi assento e vedo che l'anima è ombra.
              È suola sotto la scarpa del corpo.
              Formica che trascina la sua briciola
              alla tana costante del destino.
              Se il cielo appare nero è perché Dio
              ammesso che Dio esista, Dio è una madre
              china lo sguardo come la Pietà
              e lo veste della sola pupilla
              ne fa un'eco, uno specchio e se lo guarda
              nell'assenza di vetri dell'eterno
              che attutiscano il suo lungo silenzio
              e non basta che sorga una fenice
              in un abbozzo di pianto di luce
              dal cumulo di ceneri stellari
              perché ora creda che sia la mattina
              si sono distanziate, nulla più
              spalancato ed atroce come una
              folla di solitudini gemelle.
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                Scritta da: Andrea De Candia
                Scendere in strada come nel profondo
                Inferno, fendere il suo sonno buio,
                negli Inferi del più infinito altro
                a farsi incontenibile, la Notte,
                la visione della sua pelle rosea
                cadde da altezze vigili di sguardi,
                così anche la lacrima celeste
                s'addormentò nel lutto, seppellì
                nell'ideale il fuoriuscito cranio,
                le stelle troppe, distanti e minuscole,
                a far risorgere con un incendio
                la luce, sotto la forma di un pianto –
                fu che non si conobbe la sua origine
                o come la si fosse già saputa
                fin troppo, null'altro restava in serbo –
                sopra era una pupilla dilatata
                come il mistero a urlare nel silenzio
                di rimanere tale ancora e sempre –
                altrove dove invece era celeste
                era il visitatore alla sua tomba
                a gettarsi col suo corpo di pianto,
                fiore di generoso sacrificio,
                come un voler non ritornare indietro
                in quell'eternità in quell'istante.
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