Scritta da: GIUSEPPE BARTOLOMEO
In questi giorni di fine luglio con un sole che pizzica
la mia calva, con più di settant'anni che porto addosso,
ho seguito da lontano insieme alla mia cagna malamute
come un uomo solo con una enorme mietitrebbiatrice
in poche ore ha fatto fuori molti ettari di buon grano.

Seduto su un masso con accanto la cagna e il rumore
della macchina che avanzava vedevo sparire le spighe
e il campo che restava aveva perduto le leggere onde
guardando il cielo azzurro con dei recisi capelli gialli
rimasti nel terreno come se fosse passato un barbiere.

Che differenza da quando ero bambino nella mia Lucania
vedendo mia madre e tante altre farsi il segmo di croce
prima di mettersi i ditali di canna e iniziare a tagliare
quelle belle spighe inclinate verso terra per baciarla
formando tanti covoni che poggiati sembravano fratelli.

Poi venivano trasportati sul carro, messi sulla rotonda aia
aspettando gli zoccoli degli animali per far uscire il grano.
All'ora si mangiava insieme bevendo un sorso di un buon vino
per prendere il vaglio e con il buon vento separare la paglia
mentre i chicchi cadendo a terra formavano piccole piramidi.

Adesso comprendo perché il pane che ogni giorno compriamo
non ha lo stesso sapore dei forni a legna del mio passato.
La farina non è più pura e sicuramente ha strane sostanze
perché il pane indurisce presto e non arriva fresco a domani.
Grano, farina e pane hanno bisogno di carezze, amore e mani.

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