Pusillanime, miserevole don Abbondio dell'Opera manzoniana turpe figuro, alla vista dei bravi, dal guardo truce e duro fu, tremante del proprio io, dimentico di Dio. Poscia, ancor, fremente di rabbia e di paura cavalcar dovette la dispettosa mula che rasentando sen'iva l'orlo dell'altura con la testardaggine degna d'essa mula.
Di sua paura colpa nessuna avea, il poverello, giacché cavalcato mai avea mulo o asinello. Mai, prima, di brutti ceffi fu a lor cospetto perciò il freddo trafissegli carni e petto. La sua dimestichezza era il breviario che al libro accompagnava del lunario; marchiato, pur tuttavia, fu di vigliaccheria cui mescolanza avea a risaputa tirchieria.
Col segno a fuoco sulla fronte impresso per la codardia, vittima fu di se stesso; qual'uomo da nonnulla fu additato e da ciascuno schivato e allontanato. Misero più d'egli è il cavaliere esperto che di bestie da soma fu domatore certo, dacché teschio è vuoto e di cervello senza per perdita d'onestà, scienza e coscienza.
Grand'uomini furonvi d'onori e d'armi che per amore ridussero lor intelletti inermi; l'Orlando per l'Angelica perse il cervello ma egli, per poco o nulla, perse il fardello. Quegli nobile sentimento seguitava per cui la sua pazzia giustifica trovava; questi l'amata lasciava per materia quando già dava, da trent'anni, onori e gloria.
Perso, con l'abbandono ha amori, grazie, onori e scomparsi sono i prati seminati a fiori; d'irsute spine la via tortuosa prende mentre ogni giorno più in basso scende. In quel che don Abbondio credea infausto giorno reggere, della stupida mula, seppe il governo e tra preghiere, lamentele, suppliche e lagne agli applausi, alla fine, passò dalle vergogne.
Il cavaliere credendosi sommo del meglio da furente il destriero lancia allo sbaraglio mentre, lemme, l'arciere scaglia la freccia che il cavaliere nuotar fa nella feccia. Ora s'affligge sull'operato suo nefasto cercando dar riparo al provocato guasto; al coccodrillo s'accosta a somiglianza che piange su distrutta figliolanza.
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