Scritta da: Andrea De Candia
Chinavano le nuche tutte quante
alla carezza azzurra dell'altissimo
fingeva di inarcarsi all'orizzonte
per contemplare e poi bere gli abissi
tolta allo specchio, dopo, la sua maschera,
calato giù il sipario del suo sonno,
quella palpebra bionda che era luce,
e svelata l'essenza ch'era nera,
non più ombra, infinito di pupilla
a vedere in sé stesso il sonno veglia
ché non s'accenda più luce di un sogno,
ché non risorga da notturne ceneri
la fenice lunare del suo cranio
che non s'acquisti vista nei riflessi
di lacrime di luce delle stelle.
Voi non sapete, spighe, quanto male
provocate al suo palmo che s'abbassa
fin su alle punte che pungono, spine,
emorragia che nasce nel tramonto,
ognuna che risponde alla vicina,
ognuna è persa come in una folla,
ed è in un mare d'oro ch'è scaduto
dal valore della vita alla morte,
ognuna è scheletro, lisca di pesce,
inseppellita fra le onde di sé,
aspetta il vento che gli sia da nuoto,
aspetta infine la bocca del sole
che in opaco respiro nel discreto
svegliarsi del colore dica piano
l'infinita parola del silenzio
che le arrivi con l'eco del suo raggio
mentre in preghiera ha la resurrezione
l'inferno è il bruno ed è tutta la terra
e la luce che arriva una catabasi.

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