Se penso ai fogli come bare bianche, cosa son io che ho scritto l'impossibile? Fogli strappati senza ripotere farli tornare al prima, alla chiusura d'un libro o d'un quaderno. Oh, gli scritti degli altri quando aprivo e sfogliavo nella lettura, l'una dopo l'altra sembrava ritornassero alla vita. Quale consolazione posso darmi? Sol essere il lettore di me stesso? Parole scritte per non esser dette, rimaste a lungo chiuse nella gabbia alata della mente, sopravvissute come quell'uccello che non si lascia andare, liberandolo, a cieli d'aria, d'aria senza fine, che non trovano pagina nell'altro, nella risposta, nel suo ascoltarle, nel ricordarle, nel farne tesoro. Sembra un avervi uccise, ma era come fosse già morte prima. Dal grembo del mio tutto – ora son madre! – vedo le dita diventarmi occhi e palpebre abbassate dalla nascita, piangervi come lacrime di sangue delle vostre pupille! Chè nessuno è più solo nel lutto di chi scrive: ho pianto con le dita dei miei occhi il vostro corpo, allora, l'ho sepolto, ero la folla della solitudine, il disumano che lasciava voi giacere con la schiena sulla neve, nuda terra d'inverni ripetuti! Nel rimanere c'era il vostro grazie: "morte, c'hai piante, c'hai dato la vita!" E parlavo, parlavo con la voce, sperando di rispondervi, di dirvi: "Di nulla, io sono madre." Ma per voi ero come fossi muto!
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