In questi giorni di fine luglio con un sole che pizzica la mia calva, con più di settant'anni che porto addosso, ho seguito da lontano insieme alla mia cagna malamute come un uomo solo con una enorme mietitrebbiatrice in poche ore ha fatto fuori molti ettari di buon grano.
Seduto su un masso con accanto la cagna e il rumore della macchina che avanzava vedevo sparire le spighe e il campo che restava aveva perduto le leggere onde guardando il cielo azzurro con dei recisi capelli gialli rimasti nel terreno come se fosse passato un barbiere.
Che differenza da quando ero bambino nella mia Lucania vedendo mia madre e tante altre farsi il segmo di croce prima di mettersi i ditali di canna e iniziare a tagliare quelle belle spighe inclinate verso terra per baciarla formando tanti covoni che poggiati sembravano fratelli.
Poi venivano trasportati sul carro, messi sulla rotonda aia aspettando gli zoccoli degli animali per far uscire il grano. All'ora si mangiava insieme bevendo un sorso di un buon vino per prendere il vaglio e con il buon vento separare la paglia mentre i chicchi cadendo a terra formavano piccole piramidi.
Adesso comprendo perché il pane che ogni giorno compriamo non ha lo stesso sapore dei forni a legna del mio passato. La farina non è più pura e sicuramente ha strane sostanze perché il pane indurisce presto e non arriva fresco a domani. Grano, farina e pane hanno bisogno di carezze, amore e mani.
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