In quel quarantatré, dai suoi albori di quante tristi cose furon'orrori, quante anormali cose ebber processo tutto in memoria bene m'è impresso. Per quanto m'opri e sproni l'intelletto su carta, certo, non può esser detto quel ch'ho vissuto e con mio occhio visto in quel periodo nero, infame e tristo.
Aleggiava miseria tutt'intorno e pane non era più in nessun forno; grano non era né farina o pasta e pochi i viveri distribuiti a testa. La tessera donava misero diritto ad accedere a poco, grame vitto; la fame in ogni dove era perenne, da sofferenza vecchio era trentenne.
Prodotto non donava più la terra; era periodo tristo, era la guerra! Manco erba era agli argini di via ch'er'estirpata che nascesse pria. Di medicina, poi, non era traccia e il patimento si leggeva in faccia. V'era, soltanto, del poco chinino che scarso lo teneva il tabacchino.
Nessuno al piede più avea calzare, nessuno panni aveva da indossare. Occhio scavato, zigomo sporgente, testa cadente, sguardo triste e assente. Scalza la donna, macilenta e stanca di cenci avea coperto spalla e anca; gobba teneva e non avea vent'anni, curve le spalle per i molti affanni.
Ovunque era sporcizia, era lordura, di scarafaggi piena ogni fessura; di cimice e di mosche era marea, pulci e pidocchi ahimè! Ognuno avea. Necessità del corpo fisiologica soddisfava in vaso di ceramica la donna, il maschio, con corruccio di cesso ne faceva ogni cantuccio.
Mesta sonava la campana a lutto per annunciare della guerra il frutto; quel tocco come freccia il cuor passava, piangea la donna, ahimè, chi non tornava. Per quella guerra dal passo stanco e lento altro Virgulto risultava spento e la speme che nutria la giovinetta era infilzata dalla baionetta.
Di fame sofferente e di stanchezza gente che perso avea casa e ricchezza giungeva con scarsi panni addosso ch'al sol vederla umano era commosso. Siamo sfollati, venivano dicendo, veniamo da lontano, veniamo da Trento. Avevamo mestiere professione e arte delle vostre miserie deh! Fateci parte.
Dacché la guerra su nostra Terra regna destino cattivo i nostri animi segna; dacché l'odio è calato come lampo manco nella preghiera avemmo scampo. E noi, che poveri eravamo non meno d'essi in un abbraccio a loro stemmo commossi, le nostre alle loro lacrime mischiammo e l'un con l'altro un solo corpo fummo.
Di militi a cavallo e giacca a vento era un esteso, grand'accampamento. Militi stavano a guardia per cancello e avevano disloco in area Polpicello, Portavano divise lacere a stellette e a pranzo sgranavano gallette con poco vitto ch'era in scatolame, per appagare i morsi della fame.
In questo quadro triste e desolante v'era qualcosa, però, di sublimante. Era quel canto che s'innalzava al cielo da dentro le baracche a verde telo. Gl'inni di Patria che i militi intonavano con orgoglio pel cielo veleggiavano e nell'udirli: Grandezza del Divino! Non era fame, nemmen tristo destino.
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