Le migliori poesie di Pier Paolo Pasolini

Poeta, scrittore, regista e attore, nato domenica 5 marzo 1922 a Bologna (Italia), morto domenica 2 novembre 1975 a Roma (Italia)
Questo autore lo trovi anche in Frasi & Aforismi e in Film come regista.

Scritta da: Phantastica

Timor di me?

Oh, un terribile timore;
La lietezza esplode
Contro quei vetri al buio
Ma tale lietezza, che ti fa cantare in voce
È un ritorno dalla morte: e chi può mai ridere -
Dietro, sotto il riquadro del cielo annerito
Riapparizione ctonia!
Non scherzo: ché tu hai esperienza
Di un luogo che non ho mai esplorato,
UN VUOTO NEL COSMO
È vero che la mia terra è piccola
Ma ho sempre affabulato sui luoghi inesplorati
Con una certa lietezza, quasicché non fosse vero
Ma tu ci sei, qui, in voce
La luna è risorta;
le acque scorrono;
il mondo non sa di essere nuovo e la sua nuova giornata
finisce contro gli alti cornicioni e il nero del cielo
Chi c'è, in quel VUOTO DEL COSMO,
che tu porti nei tuoi desideri e conosci?
C'è il padre, sì, lui!
Tu credi che io lo conosca? Oh, come ti sbagli;
come ingenuamente dai per certo ciò che non lo è affatto;
fondi tutto il discorso, ripreso qui, cantando,
su questa presunzione che per te è umile
e non sai invece quanto sia superba
essa porta in sé i segni della volontà mortale della maggioranza -
L'occhio ilare di me mai disceso agli Inferi,
ombra infernale vagolante
nasconde
E tu ci caschi
Tu conosci di ciò che è realtà solo quell'Uomo Adulto
Ossia ciò che si deve conoscere;
lei, la Donna Adulta, stia all'Inferno
o nell'Ombra che precede la vita
e di là operi pure i suoi malefizi, i suoi incantesimi;
odiala, odiala, odiala;
e se tu canti e nessuno ti sente, sorridi
semplicemente perché, per ora, intanto, sei vittoriosa -
in voce come una giovane figlia avida
che però ha sperimentato dolcezza;
Parigi calca dietro alle tue spalle un cielo basso
Con la trama dei rami neri; ormai classici;
questa è la storia -
Tu sorridi al Padre -
Quella persona di cui non ho alcuna informazione,
che ho frequentato in un sogno che evidentemente non ricordo -
strano, è da quel mostro di autorità
che proviene anche la dolcezza
se non altro come rassegnazione e breve vittoria;
accidenti, come l'ho ignorato; così ignorato da non saperne niente -
cosa fare?

Tu doni, spargi doni, hai bisogno di donare,
ma il tuo dono te l'ha dato Lui, come tutto;
ed è Nulla il dono di Nessuno;
io fingo di ricevere;
ti ringrazio, sinceramente grato;
Ma il debole sorriso sfuggente
non è di timidezza
è lo sgomento, più terribile, ben più terribile
di avere un corpo separato, nei regni dell'essere - se è una colpa
se non è che un incidente:
ma al posto dell'Altro
per me c'è un vuoto nel cosmo
un vuoto nel cosmo
e da là tu canti.
Pier Paolo Pasolini
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    MI alzo con le palpebre infuocate

    MI alzo con le palpebre infuocate.
    La fanciullezza smorta nella barba
    cresciuta nel sonno, nella carne smagrita,
    si fissa con la luce fusa nei miei occhi riarsi.
    Finisco così nel buio incendio
    di una giovinezza frastornata dall'eternità;
    così mi brucio, è inutile
    - pensando - essere altrimenti,
    imporre limiti al disordine: mi trascina
    sempre più frusto, con un viso secco
    nella sua infanzia, verso un quieto e folle
    ordine, il peso del mio giorno perso
    in mute ore di gaiezza, in muti
    istanti di terrore...
    Pier Paolo Pasolini
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

      Li osservo, questi uomini, educati
      ad altra vita che la mia: frutti
      d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
      quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
      storica di Roma. Li osservo: in tutti
      c'è come l'aria d'un buttero che dorma
      armato di coltello: nei loro succhi
      vitali, è disteso un tenebrore intenso,
      la papale itterizia del Belli,
      non porpora, ma spento peperino,
      bilioso cotto. La biancheria, sotto,
      fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
      che trapela il suo umido, rosso,
      indecente bruciore. La sera li espone
      quasi in romitori, in riserve
      fatte di vicoli, muretti, androni
      e finestrelle perse nel silenzio.
      È certo la prima delle loro passioni
      il desiderio di ricchezza: sordido
      come le loro membra non lavate,
      nascosto, e insieme scoperto,
      privo di ogni pudore: come senza pudore
      è il rapace che svolazza pregustando
      chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
      essi bramano i soldi come zingari,
      mercenari, puttane: si lagnano
      se non ce n'hanno, usano lusinghe
      abbiette per ottenerli, si gloriano
      plautinamente se ne hanno le saccocce
      piene.
      Se lavorano - lavoro di mafiosi macellari,
      ferini lucidatori, invertiti commessi,
      tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
      manovali buoni come cani - avviene
      che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
      troppa avita furberia in quelle vene...

      Sono usciti dal ventre delle loro madri
      a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
      preistorici, e iscritti in un'anagrafe
      che da ogni storia li vuole ignorati...
      Il loro desiderio di ricchezza
      è, così, banditesco, aristocratico.
      Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
      a vincere l'angosciosa scommessa,
      a dirsi: "È fatta, " con un ghigno di re...
      La nostra speranza è ugualmente ossessa:
      estetizzante, in me, in essi anarchica.
      Al raffinato e al sottoproletariato spetta
      la stessa ordinazione gerarchica
      dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
      in un mondo che non ha altri varchi
      che verso il sesso e il cuore,
      altra profondità che nei sensi.
      In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
      Pier Paolo Pasolini
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Hymnus ad nocturnum

        Ho la calma di un morto:
        guardo il letto che attende
        le mie membra e lo specchio
        che mi riflette assorto.

        Non so vincere il gelo
        dell'angoscia, piangendo,
        come un tempo, nel cuore
        della terra e del cielo.

        Non so fingermi calme
        o indifferenze o altre
        giovanili prodezze,
        serti di mirto o palme.

        O immoto Dio che odio
        fa che emani ancora
        vita dalla mia vita
        non m'importa più il modo.
        Pier Paolo Pasolini
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Il canto popolare

          Improvviso il mille novecento
          cinquanta due passa sull'Italia:
          solo il popolo ne ha un sentimento
          vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
          la modernità, benché sempre il più
          moderno sia esso, il popolo, spanto
          in borghi, in rioni, con gioventù
          sempre nuove - nuove al vecchio canto -
          a ripetere ingenuo quello che fu.

          Scotta il primo sole dolce dell'anno
          sopra i portici delle cittadine
          di provincia, sui paesi che sanno
          ancora di nevi, sulle appenniniche
          greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
          i nuovi colori delle tele, i nuovi
          vestiti come in limpidi roghi
          dicono quanto oggi si rinnovi
          il mondo, che diverse gioie sfoghi...

          Ah, noi che viviamo in una sola
          generazione ogni generazione
          vissuta qui, in queste terre ora
          umiliate, non abbiamo nozione
          vera di chi è partecipe alla storia
          solo per orale, magica esperienza;
          e vive puro, non oltre la memoria
          della generazione in cui presenza
          della vita è la sua vita perentoria.

          Nella vita che è vita perché assunta
          nella nostra ragione e costruita
          per il nostro passaggio - e ora giunta
          a essere altra, oltre il nostro accanito
          difenderla - aspetta - cantando supino,
          accampato nei nostri quartieri
          a lui sconosciuti, e pronto fino
          dalle più fresche e inanimate ère -
          il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

          E se ci rivolgiamo a quel passato
          ch'è nostro privilegio, altre fiumane
          di popolo ecco cantare: recuperato
          è il nostro moto fin dalle cristiane
          origini, ma resta indietro, immobile,
          quel canto. Si ripete uguale.
          Nelle sere non più torce ma globi
          di luce, e la periferia non pare
          altra, non altri i ragazzi nuovi...

          Tra gli orti cupi, al pigro solicello
          Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
          d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
          di Toscana, con strilli di rondinini:
          Hor atorno fratt Helya! La santa
          violenza sui rozzi cuori il clero
          calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
          feroce nel feudo provinciale l'Impero
          da Iddio imposto: e il popolo canta.

          Un grande concerto di scalpelli
          sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
          sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
          suona, giganteggiando il travertino
          nel nuovo spazio in cui s'affranca
          l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
          jersera... ripete con l'anima spanta
          nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
          resta nel popolo. E il popolo canta.

          Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
          e trepidi nel vento napoleonico,
          all'Inno dell'Albero della Libertà,
          tremano i nuovi colori delle nazioni.
          Ma, cane affamato, difende il bracciante
          i suoi padroni, ne canta la ferocia,
          Guagliune 'e mala vita! In branchi
          feroci. La libertà non ha voce
          per il popolo cane. E il popolo canta.

          Ragazzo del popolo che canti,
          qui a Rebibbia sulla misera riva
          dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
          è vero, cantando, l'antica, la festiva
          leggerezza dei semplici. Ma quale
          dura certezza tu sollevi insieme
          d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
          tuguri e grattacieli, allegro seme
          in cuore al triste mondo popolare.

          Nella tua incoscienza è la coscienza
          che in te la storia vuole, questa storia
          il cui Uomo non ha più che la violenza
          delle memorie, non la libera memoria...
          E ormai, forse, altra scelta non ha
          che dare alla sua ansia di giustizia
          la forza della tua felicità,
          e alla luce di un tempo che inizia
          la luce di chi è ciò che non sa.
          Pier Paolo Pasolini
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