La chirurgia somiglia all'amore. È preceduta da una fase di attenzioni e premure, la revisione accurata delle immagini, la valutazione funzionale del paziente, la scelta dell'incisione, che non a caso si chiama "approccio". Il giorno prima della sala, quando il primario sceglie proprio te per quel particolare intervento, vivi un'autentica ansia da prestazione: ti domandi se sarai all'altezza, e puntualmente sogni lo scenario che potrebbe prospettarsi l'indomani. Nel giorno fatidico, sei galvanizzato e in preda al panico, iperreattivo nei confronti di chiunque... poi arriva il momento di scendere in sala, preceduto dalla telefonata di un infermiere: "siamo pronti!" E tu ripeti a te stessa: "sì, siamo pronti..." l'intestino ti si contorce come prima d'un esame, il cuore batte all'impazzata. Finalmente accedi al blocco operatorio, un ambiente freddo e asettico, in cui la temperatura è impostata a 22° c. Tu indossi una tuta leggera color melanzana, a mezza manica, ma non senti freddo... lo intuisci guardandoti intorno: gli anestesisti e gli infermieri sono intabarrati in felpe e camici sintetici, avviluppati a se stessi, tremanti e pallidi... tu avanzi con la fierezza di un soldato della falange oplitica, a testa alta, sprezzante del freddo e del pericolo... ed eccoti dinanzi alla sala, la tua sala, la sala c, ove dovrai combattere la tua personale battaglia contro il male, con la complicità di un uomo che giace fiducioso su un lettino, seminudo e infreddolito, terrorizzato, eppure determinato ad offrirti il proprio corpo affinché diventi il tuo campo di battaglia. Si fida, si lascerà addormentare affinché tu possa estirpare il male dalle sue viscere, possa incidere, scavarti un varco dentro di lui, ed asportare l'alieno che si era impossessato della sua vita per devastarla. Al suono della tua voce, distoglie lo sguardo che teneva fisso nel vuoto davanti a sé, aggrotta la fronte sforzandosi di riconoscerti, così conciata. Entrambi interpretate un ruolo, come in una rappresentazione sacra, ed entrambi siete mascherati. Quando scosti appena la mascherina dal viso, il volto del paziente si illumina di un sorriso antico, simile al primo sorriso che i neonati regalano alla mamma: da quello sguardo realizzi che hai la sua vita nelle tue mani, che egli ha liberamente stabilito di affidarla a te, affinché compia il miracolo. La tua mano sulla sua sua fronte suggella la promessa che tutto andrà per il meglio; e non appena ti allontani, lui chiude gli occhi, sorridendo... quindi giunge il momento della vestizione: gli infermieri strumentisti ti porgono un ampio camice azzurro e guanti in lattice, con una gestualità rigorosa, cadenzata da ritmi rigidamente definiti... nessun movimento è lasciato al caso, le tue mani ed il tuo corpo non possono sfiorare nulla che non sia sterile: le superfici a te accessibili vengono tappezzate da un telo color indaco, e tu puoi toccare esclusivamente gli strumenti del piccolo ed avveniristico arsenale del quale ti servirai per asportare il "mostro". Allora sai che non potrai tornare indietro, tantomeno vorrai farlo: il tuo respiro diventa lento e profondo, il cuore scandisce un ritmo pacato, che invita alla calma ed alla concentrazione: sei pronto. Disinfetti la cute, copri il corpo del tuo paziente sotto teli sterili, grevi drappi color indaco che nasconderanno il suo volto amico, ti precluderanno l'accesso ai suoi occhi, ai lineamenti alterati dalla smorfia innaturale indotta dal tubo orotracheale... devi scordarti di loro: in quell'istante, loro non sono più chi erano un attimo prima. L'uomo, la donna, il paziente, diventano una gabbia toracica, uno scrigno sacro ed inviolabile che è stato forzato da un mostro bastardo; e quel mostro incarna tutto il male del mondo, tutto il male che ha inginocchiato la storia dell'uomo, la tua storia, quella delle persone che amavi e ti ha portato via, il demone che infesta la tua esistenza. E tu hai l'occasione ed il preciso dovere di stanarlo da quella gabbia invalicabile, estirparlo dal soffice polmone in cui aveva attecchito senza permesso, e soffocarlo, circondandolo con le tue lame, e distruggerlo, senza pietà. La tua mano impugna il bisturi come brandendo una spada d'oro... incide un segno... introduci in un piccolo varco un'ottica che esplora gli abissi reconditi del corpo come un periscopio... esplori con calma... "eccolo!" Lo hai trovato! Bene. Affiliamo le lame, prepariamo le sururatrici, i sigillanti, le colle... quel bastardo ha i minuti contati... tutti i presenti, tu, il tuo collega, gli infermieri, gli anestesisti, tutti siete tesi come corde di violino nel momento critico... una sururatrice meccanica dell'impugnatura salda ed il lungo stelo d'argento, simile alle armi dei film di fantascienza in cui si combattono nemici alieni, rilascia la sua cartuccia di graffette di titanio, e la sua lama potente e precisa avanza inesorabile... è fatta. Avete vinto. Raccogli le spoglie del nemico sconfitto in un sacchetto impermeabile, dove non potrà mai più nuocere né contaminare... e lo estrai dal torace, scaraventandolo sul tavolo dello strumentista (quasi a dire: "fanculo, infame bastardo!" ) sei felice, felice nel corpo e nello spirito, e vieni sopraffatta da una spossatezza indescrivibile. Ti spogli del camice azzurro, della mascherina, dei guanti: hai le mani madide, quasi macerate, il sudore imperla la tua fronte... ti guardi in uno specchio, e sei bruttissima... il combattimento ti ha sfiancata, ha rovinato irrimediabilmente la messa in piega, ha sciolto il trucco, ha svelato le occhiaie che avevi coperto con cura certosina, stamattina, prima di uscire... ma "stamattina" eri ancora soltanto una donna... adesso sei un gladiatore che brandisce la testa del nemico, ancora imbrattato del suo sangue, e gloriosamente dilaniato dalla fatica... sì, la chirurgia è proprio come l'amore. Torni in corsia distrutto e felice, e porti la tua divisa melanzana in trionfo; nessuno capisce, tutti notano soltanto le occhiaie... ma quello che hai appena fatto è qualcosa di sacro e di grande, Dio ha guidato la tua mano ed i tuoi occhi per sconfiggere il male attraverso te, ancora una volta... quei gesti, quei rituali scanditi meticolosamente, quella battaglia silenziosa, finalmente vinta, hanno stabilito un legame incorruttibile col tuo paziente, il quale, riappropriatosi della sua identità, ancora stordito da un sonno greve e artificiale, stringe la tua mano, corrugando le sopracciglia... "è andato tutto bene!... adesso riposi..." adesso riposa, sì; domattina dovrai riprendere le redini della biga... i tuoi affetti, la tua casa, le cose che ti piaceva fare prima che quel maledetto infestasse i tuoi pensieri, sono ancora là dove li avevi lasciati... ti stanno aspettando... dunque, dormi. Io sarò qui a vegliare sul tuo sonno fino a domani... poi, mi dileguerò in silenzio, e ti restituirò alla tua vita.

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    Riferimento:
    Riflessioni in Sala Operatoria.

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