Se non inchiara l'opaco divenire e nel torbido nero tremo e avvizzisco se moccolo si fa il lucignolo della vita a che nel fugace resistere e respirare? Si, smettiamola: voglio capitolare! Su vieni Morte, proba amante annullami e innalza il tuo vessillo sulla sostanza del mio corpo, circondato da selvagge vermene tumulato io resti sotto i cipressi. A che vale restare al guinzaglio del tempo despota che incede e tra strappi d'essere al nulla mi adduce? Sono stanco di tutto, di me, del mondo, di tambureggiare dimessi di speranze stanco di contumelie, di sogni, di ritorni e partenze, di accalappi e di illusioni. Non sono stato un buon impresario del mio destino e fiaschi e fischi a più non dire più non li ho contati: pochi i giorni di rimediata allegria rare e brevi le feste e i canti del cuore. Appartato deluso e intirizzito fuggite ombre, ho cambiato panchina ma sempre il sole andava altrove, ogni volta che ad un incrocio sceglievo una viuzza illuminata consueta era l'indifferenza raccolta da cuori e occhi d'altri incrociati. Passante avrei parlato per anni di che dentro avevo e moriva quando malinconie sfibravano il corpo e l'anima pene spiantava. Finché ho creduto in qualcosa ho tenuto duro e combattuto e ora che fido in più in niente tanto vale che il mio incomprensibile tutto smagato muti in uno zero assoluto. Anche il nero, come il verde o l'azzurro, è un colore nell'inganno delle tinte possibili delle cose che colorano la vita. Mi sarei dovuto abbonare a un Dio ebete partecipare a mostre e raduni, frequentare navate, sfilare ai suoi atelier per infilarmi in celesti drappi e veli ma non ebbi mai un biglietto di invito e compresenza di me stesso solo fui. Ieri oggi domani andate altrove di voi libero, mi distendo nel nulla.
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