Ad esalar s'appresta l'ultimo respiro, lume raggelato, da muto schiaffo d'un truce soffio d'aria, entrato di soppiatto, ch'ha osato spegnerlo, per poi, fugace alito, dissolversi nel nulla. Or ora non rischiara, dissipando l'ombre, ripresentatesi, di molto spaventose e ignote. Ad avvistar fantasmi, scruta, lo sguardo mio sagace. Lacrime di cera, ch'eran sgorgate, roventi, raffreddatesi scendendo, sono indurite, nel mentre s'adagiavano, nel sagomar il fondo del candelabro, m'ha assalito la penombra, all'improvviso. Mesta, la scrittura solitaria, ho abbandonato, giacché s'è fatto tardi. Mai mi son detto poeta, né scrittore, né tantomeno autore di prosa o di poemi, né di poesia o di sonetti brevi. M'arrangio a tesser storie d'altri tempi, dacché allettanti assai ché, dei moderni, non reggono al confronto, più fantasiose e affascinanti, intrise di maestà, di cavalieri e belle dame, nonché giullari estrosi, d'ilarità maestri, di serenate alle donzelle, brillanti menestrelli. Gl'occhi fatican nel restare aperti, scendon le palpebre, nel volerli cinger nell'abbraccio. Vacillanti dita s'apron, instabile, la penna cade, su lo scrittoio perendo alfin, disgiunta dalla mano, in tal mio libro, dov'appassiti crisantemi la copron, nel distendere lo stelo, quasi ad onorar transitoria, seppur morte fittizia e dolce.
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