Io non son della solita vacchetta, né sono uno stival da contadino; e se pajo tagliato coll'accetta, chi lavorò non era un ciabattino: mi fece a doppie suola e alla scudiera, e per servir da bosco e da riviera.
Dalla coscia giù giù sino al tallone sempre all'umido sto senza marcire; son buono a caccia e per menar di sprone, e molti ciuchi ve lo posson dire: tacconato di solida impuntura, ho l'orlo in cima, e in mezzo la costura.
Ma l'infilarmi poi non è sì facile, né portar mi potrebbe ogni arfasatto; anzi affatico e stroppio un piede gracile, e alla gamba dei più son disadatto; portarmi molto non poté nessuno, m'hanno sempre portato a un po' per uno.
Io qui non vi farò la litania di quei che fur di me desiderosi; ma così qua e là per bizzarria ne citerò soltanto i più famosi, narrando come fui messo a soqquadro, e poi come passai di ladro in ladro.
Parrà cosa incredibile: una volta, non so come, da me presi il galoppo, e corsi tutto il mondo a briglia sciolta; ma camminar volendo un poco troppo, l'equilibrio perduto, il proprio peso in terra mi portò lungo e disteso.
Allora vi successe un parapiglia; e gente d'ogni risma e d'ogni conio pioveano di lontan le mille miglia, per consiglio d'un Prete o del Demonio: chi mi prese al gambale e chi alla fiocca, gridandosi tra lor: bazza a chi tocca. Volle il Prete, a dispetto della fede, calzarmi coll'ajuto e da sé solo; poi sentì che non fui fatto al suo piede, e allora qua e là mi dette a nolo: ora alle mani del primo occupante mi lascia, e per lo più fa da tirante.
Tacca col Prete a picca e le calcagna volea piantarci un bravazzon tedesco, ma più volte scappare in Alemagna lo vidi sul caval di San Francesco: in seguito tornò; ci s'è spedato, ma tutto fin a qui non m'ha infilato.
Per un secolo e più rimasto vuoto, cinsi la gamba a un semplice mercante; mi riunse costui, mi tenne in moto, e seco mi portò fino in Levante, - ruvido sì, ma non mancava un ette, e di chiodi ferrato e di bullette.
Il mercante arricchì, credè decoro darmi un po' più di garbo e d'apparenza: ebbi lo sprone, ebbi la nappa d'oro, ma un tanto scapitai di consistenza; e gira gira, veggo in conclusione che le prime bullette eran più buone.
In me non si vedea grinza né spacco, quando giù di ponente un birichino ea una galera mi saltò sul tacco, e si provò a ficcare anco il zampino; ma largo largo non vi stette mai, anzi un giorno a Palermo lo stroppiai.
Fra gli altri dilettanti oltramontani, per infilarmi un certo re di picche ci si messe cò piedi e colle mani; ma poi rimase lì come berlicche, quando un cappon, geloso del pollajo, gli minacciò di fare il campanajo.
Da bottega a compir la mia rovina saltò fuori in quel tempo, o giù di lì, un certo professor di medicina, che per camparmi sulla buccia, ordì una tela di cabale e d'inganni che fu tessuta poi per trecent'anni.
Mi lisciò, mi coprì di bagattelle, e a forza d'ammollienti e d'impostura tanto raspò, che mi strappò la pelle; e chi dopo di lui mi prese in cura, mi concia tuttavia colla ricetta di quella scuola iniqua e maledetta.
Ballottato così di mano in mano, da una fitta d'arpìe preso di mira, ebbi a soffrire un Gallo e un Catalano che si messero a fare a tira tira: alfin fu Don Chisciotte il fortunato, ma gli rimasi rotto e sbertucciato.
Chi m'ha veduto in piede a lui, mi dice che lo Spagnolo mi portò malissimo: m'insafardò di morchia e di vernice, chiarissimo fui detto ed illustrissimo; ma di sottecche adoperò la lima, e mi lasciò più sbrendoli di prima.
A mezza gamba, di color vermiglio, per segno di grandezza e per memoria, m'era rimasto solamente un Giglio: ma un Papa mulo, il Diavol l'abbia in gloria, ai Barbari lo diè, con questo patto di farne una corona a un suo mulatto.
Da quel momento, ognuno in santa pace la lesina menando e la tanaglia, cascai dalla padella nella brace: vicerè, birri, e simile canaglia mi fecero angherie di nuova idea, et diviserunt vestimenta, mea.
Così passato d'una in altra zampa d'animalacci zotici e sversati, venne a mancare in me la vecchia stampa di quei piedi diritti e ben piantati, cò quali, senza andar mai di traverso, il gran giro compiei dell'universo.
Oh povero stivale! Ora confesso che m'ha gabbato questa matta idea: quand'era tempo d'andar da me stesso, colle gambe degli altri andar volea; ed oltre a ciò, la smania inopportuna di mutar piede per mutar fortuna.
Lo sento e lo confesso; e nondimeno mi trovo così tutto in isconquasso, che par che sotto mi manchi il terreno se mi provo ogni tanto a fare un passo; ché a forza di lasciarmi malmenare, ho persa l'abitudine d'andare.
Ma il più gran male me l'han fatto i Preti, razza maligna e senza discrezione; e l'ho con certi grulli di poeti, che in oggi si son dati al bacchettone: non c'è Cristo che tenga, i Decretali vietano ai Preti di portar stivali.
E intanto eccomi qui roso e negletto, sbrancicato da tutti, e tutto mota; e qualche gamba da gran tempo aspetto che mi levi di grinze e che mi scuota; non tedesca, s'intende, né francese, ma una gamba vorrei del mio paese.
Una già n'assaggiai d'un certo Sere, che se non mi faceva il vagabondo, in me potea vantar di possedere il più forte stival del Mappamondo: ah! Una nevata in quelle corse strambe a mezza strada gli gelò le gambe.
Rifatto allora sulle vecchie forme e riportato allo scorticatojo, se fui di peso e di valore enorme, mi resta a mala pena il primo cuojo; e per tapparmi i buchi nuovi e vecchi ci vuol altro che spago e piantastecchi.
La spesa è forte, e lunga è la fatica: bisogna ricucir brano per brano; ripulir le pillacchere; all'antica piantar chiodi e bullette, e poi pian piano ringambalar la polpa ed il tomajo: ma per pietà badate al calzolaio!
E poi vedete un po': qua son turchino, là rosso e bianco, e quassù giallo e nero; insomma a toppe come un arlecchino; se volete rimettermi davvero, fatemi, con prudenza e con amore, tutto d'un pezzo e tutto d'un colore.
Scavizzolate all'ultimo se v'è un uomo purché sia, fuorché poltrone; e se quando a costui mi trovo in piè, si figurasse qualche buon padrone di far con meco il solito mestiere, lo piglieremo a calci nel sedere. (Giuseppe Giusti)
La chiosa di Pierluigi
Seguendo il tuo consiglio l'hanno fatto: han provato per centosettant'anni a cercar di scoprire il piede adatto; con alti e bassi han fatto altri danni; ai Preti ora noi dobbiam sommare chi d'Oltremare ci viene a provare!
E or caro Giuseppe, mio Maestro, hanno la gamba pensato di trovare: hanno creduto che col piede destro di nuovo lui potesse camminare! Il guaio è che nessuno ha mai badato per quale piede l'hanno fabbricato! (Pierluigi Camilli)
Penso anche se non Italiana che il autore voleva fare notare che un paese non è solo terra intessa come confini e geografia, ho possedimento e molto di più, e tradizione , unione ,lavoro, amore per il bene di tutti.
In questa poesia la fuga da una realtà ostile si traduce in una ricerca delle antiche origini perdute, culturali, storiche, territoriali.
"Lo Stivale", di Giuseppe Giusti, è la poesia simbolo del Risorgimento, metafora altrettanto efficace di quella <<patria-nazione>> per cui molti uomini e molte donne si immollarono sulle barricate, per riscattare la propria terra <<Madre>>.
Come si evince dalla lettura della poesia di riferimento: la patria, per il poeta, esisteva fin da quando si era formata la sua stessa connotazione territoriale. Di conseguenza, la nazione si era formata con il primo insediamento abitativo. Tutto questo è evidente ne <<Lo Stivale>>.
Nel suo processo originario, la <<patria-nazione>> appariva al poeta dotata di una possente individualità naturale, dotata di una propria anima, che nasceva con la sua estensione geografica, si sviluppava con il primo nucleo abitativo della penisola italiana e infine, dopo una lunga parentesi di gloria, decadeva con la sconfitta dell'Impero Romano. Ragion per cui essa era presa di mira dalle varie invasioni straniere susseguitesi nel corso dei secoli.
Pertanto, Giusti sentiva su di sé il compito di mettersi alla ricerca delle antiche radici della nazione italiana, facendole rivivere con i propri scritti nella mente e nel cuore dei giovani patrioti, in attesa che un uomo <<purché sia>> riuscisse a risollevare "Lo Stivale" dal proprio ingrato destino.
(Riccardo Diolaiuti)
Purtroppo l'Italia e' uno stivale il cui governo non ha mai smesso di essere conteso. Un tempo erano gli stranieri a volerlo per se',ma anche dopo l'unita' d'Italia, le due guerre mondiali, e con l'introduzione della Repubblica, questo lungo scarpone ha sempre fatto gola. E' passato di mano in mano, i partiti che lo hanno governato se lo sono provati di volta in volta, ma e' sempre andato loro o troppo largo o troppo stetto. Adesso , come al tempo del Giusti, non ha ancora trovato la "gamba" adatta ad indossarlo perche' una volta avutolo alla loro "mercéde" ne hanno fatto quel che ne hanno voluto senza tenere conto delle sue vere necessita', "spupazzandolo" e "spremendolo" come un limone per garantire soloi loro interessi e non curandosi se aveva ancora la "tomaia" o la "suola" per potersi appoggiare a terra. Povero stivale... incompreso e fruttato a piacimento da "piedi" inadatti... Sei "tutti noi " !!!!
ciao,io sono elisa penso che la poesia sia riferita a un signore che ha perso la possibilità di camminare e la poesia racconta che dopo tanti tentativi e sforzi la malattita è troppo dura e non sempre è possibile guarire da tutte le orribili malattia di questo mondo io ho vissuto e sto ancora vivendo questa malattia mio nonno è malato da quando io avevo 4 anni non mi riconosce più e non cammina io sto malissimo a guardarlo tutti i giorni ma pur troppo la malattia che ha mio nonno e la malattia che ha il signore rappresentato nelle poesia come quella di molte altre persone non si puo' guarire si puo' solo pregare e continuare a sperare.
ciao,elisa
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