Rientravo dall'aver piantato altri alberi. Tutto sudato, crollai di traverso sul divano. Al tavolo da pranzo sedevate tu e Clare, cantando, come fate, in armonia che pure io sento bella – soprano e mezzo soprano, per quel che ci capisco. Mi hai fatto l'occhietto e, col viso in liquefazione, il mio aspetto doveva esser quello dell'anno in cui dipingesti tutti i nostri ritratti, amorevolmente, con finezza squisita, su piastrelle ceramiche, a olio che non secca, uno o al più due colori alla volta, e li portasti in paese, inclinati, non asciutti, in plastici contenitori da gelato. Era pittura a encausto, la fotografia dell'antica Roma, che si sviluppa per successive cotture finché vive, libera dal tempo, trasposta dietro uno smalto prima assente. Facesti poi qualche piastrella figurata per il camino a mosaico, e smettesti. Hai vero talento per l'arte. Ma è strano: non ti trascina. Non è la tua ossessione.
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