Veli insozzati dai calici, il mantra dello scorpione biascicato come supplizio. Bugiarda, Aghi, bugiarda. La scalinata pel tuo vessillo s'è ulcerata al grido di duna, e i gradini han abbracciato la secchezza della sabbia. Ora è tardi: non alla sera, non sotto le labbra di Virgo. Respira, questi profumi, quest'armature, l'ovunque. Il povero cigno dibatte l'ali appesantite dall'alghe, ma invecchia nello stagno coi piccoli, pallida tenebra. E tu, delle tue ali, che ne farai? E tu, madre del tuo rimorso, come credi l'abbandonerai?
Ma la notte è paziente, e l'alba spesso temporeggia sotto spesse cortine di nubi. E l'attesa, tra tutte le funi, è la più fragile umana velleità. Così, mentre la luna nuova è troppo giovane per capire, e il sole tarda a rinvenire, ci immergiamo con languore in una selvatica danza, per dipinger col deserto la voluttà dell'universo. Non c'è pace per noi, Aghi; non dopo aver assorbito dal cuor leggiadro del vespro, gli intimi aromi delle nostre essenze. Stanotte spariamo.
Il poeta è morto, la poesia esiliata. Figlie dello stupro, liriche d'assenzio.
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