Poesie inserite da Pequi


Scritta da: Pequi
Mi scopro a navigare 
nell'acquario del tuo viso
smarrito in quell'infinita
incertezza dell'acqua nativa.
Perso senza saper amare ti ho rifilato
un vuoto a perdere
scaricando le tue passioni, 
livide come un
pianto invernale...
occhi strusciati male
coi malintesi di una
bellezza abusiva
sul mio corpo 
incarognito dai bisogni.
E nell'illusione di potermi legare a te
mi sono lasciato trastullare
evitando il veleno di questi giorni,
con le tempie pallide e il
cuore d'argilla ho atteso
i tuoi segnali,
brevi respiri senz'alcun affanno.
Sapevi come cercarmi:
mi offrivi lampi senza peso 
a cui mi aggrappavo abbarbicato 
su due cosce tronfie di impudente
lussuria ma prive di qualsiasi tremore.
Persino le labbra mi hai concesso
in distratti e fuggenti balli a due...
forse un fastidio da sfumare.
A luci spente, senza il coraggio
che rende un uomo desiderio,
ritmavo le tue frenesie
lasciandomi violare dalle
tue più scabre intimità.
Scarne la parole,
le mie ingoiate dall'emozione,
rifratte nel riverbero della
tua avvenenza.
Le tue assenti,
sprechi di pensiero se io rappresentavo solo
la tempestosa morte dei tuoi sensi.
Mi abbandonavi al dondolio
dei tuoi piaceri,
sagoma incagliata nella rosura
dei tuoi attizzamenti,
graffi nella mente
rabbuiata dalle tue persistenti assenze.
Eppur mi trovavi sempre,
e quando convocato, senza sussulti,
rabbonacciavo il mio spirito,
rabberciavo il migliori fior di sorriso
che potessi sbocciarti agli occhi e con 
febbrile veemenza lo lasciavo
appassire senza fronzoli.
Scendevi oltre le viscere del mio desiderio e
lo rovistavi strappando i finti bordi 
di ogni mia difesa.
Silenziosamente piangevo quel tuo lacerare 
la mia presenza assente,
senza mani che esaltassero il mio
esserci per te o labbra gentili
per azzittire il mio romanzo.
Starnazzando godimenti immaginari 
ti spegnevo gli occhi sul nostro ripetersi
di corpi ma la tua mente fuggiva
godendo della mia schiavitù
incatenata alla spudoratezza dei nostri vizi.
Poi a fior di labbra salutavi il mio congedo
segregandomi nell'oblio delle impudicizie appagate
e mi lasciavi varcar la notte
senza il frastuono di pensieri contromano.
Erano esili i miei abbandoni,
addii sporchi d'indecenza coi quali osavo
colorare i miei ritorni,
come se dal tuo corpo potessi astrarre
l'arte dei miei giorni futuri.
Solo nel buio del mio distacco
coglievo la pochezza dei nostri incontri
e, con la carne appiccicata male
da strali di vizio incolto,
mi lasciavo lambire dal sorriso amaro
dell'uomo solo.
Composta venerdì 5 agosto 2011
Vota la poesia: Commenta