Scritta da: Silvana Stremiz

Teatri

Quando, con infantile e spietata ironia,
mi svelano innanzi i protagonisti monchi del mio passato
come spade, come lance
essi penetrano nel mio cuore
come se io fossi l’unica colpevole disposta e destinata a pagare.
La vergogna e l’inferiorità insensate crescono
mio malgrado, ma col mio permesso,
ed io stessa in un istante spaventoso
percepisco ciò che fino a quel momento
mi curavo di ignorare
sistematicamente.
La mia mente è squassata da ciò che altri dipingono e costruiscono
su di me senza curarsi o domandarmi nulla.
La loro ingenua e sagace crudeltà,
più o meno consapevole,
più o meno giustificata o colpevole,
gioca a ridurmi in silenzio:
un goffo pagliaccio, una marionetta senza nerbo né arbitrio
che s’agita ed arrossisce
tentando di non attirare attenzione
sola sul palcoscenico.
Le risate e la pietà del pubblico
di cui fino a quel momento non ero cosciente
risuonano invadenti nella mia testa,
violentandola e lasciandola stordita da un imbarazzante inettitudine
per cui, malgrado tanti sforzi,
non trovo colpevoli.
E mentre cala il sipario
sulla mia commedia inconsapevole
resto seduta, immobile nel buio aspettando il Secondo Atto
e riflettendo amaramente
sul fascino dell’ignoranza e sulla sua forza,
sulla cattiveria dei punti di vista e del relativismo esistenziale
che contemporaneamente mi costringe ad odiare comprendere e invidiare
gli atteggiamenti pseudospensierati
del mio pubblico
umanamente pettegolo

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