Scritta da: Silvana Stremiz

La madre

Lei certo l'alba che affretta rosea
al campo ancora grigio gli agricoli
mirava scalza co 'l piè ratto
passar tra i roridi odor del fieno.

Curva su i biondi solchi i larghi omeri
udivan gli olmi bianchi di polvere
lei stornellante su 'l meriggio
sfidar le rauche cicale a i poggi.

E quando alzava da l'opra il turgido
petto e la bruna faccia ed i riccioli
fulvi, i tuoi vespri, o Toscana,
coloraro ignei le balde forme.

Or forte madre palleggia il pargolo
forte; da i nudi seni già sazio
palleggialo alto, e ciancia dolce
con lui che à lucidi occhi materni

intende gli occhi fissi ed il piccolo
corpo tremante d'inquïetudine
e le cercanti dita: ride
la madre e slanciasi tutta amore.

A lei d'intorno ride il domestico
lavor, le biade tremule accennano
dal colle verde, il büe mugghia,
su l'aia il florido gallo canta.

Natura a i forti che per lei spregiano
le care a i vulghi larve di gloria
cosí di sante visïoni
conforta l'anime, o Adrïano:

onde tu al marmo, severo artefice,
consegni un'alta speme de i secoli.
Quando il lavoro sarà lieto?
Quando securo sarà l'amore?

Quando una forte plebe di liberi
dirà guardando nel sole - Illumina
non ozi e guerre a i tiranni,
ma la giustizia pia del lavoro?
Giosuè Carducci
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    L'annuale della fondazione di Roma

    Te redimito di fior purpurei
    april te vide su 'l colle emergere
    da 'l solco di Romolo torva
    riguardante su i selvaggi piani:
    te dopo tanta forza di secoli
    aprile irraggia, sublime, massima,
    e il sole e l'Italia saluta
    te, Flora di nostra gente, o Roma.
    Se al Campidoglio non più la vergine
    tacita sale dietro il pontefice
    né più per Via Sacra il trionfo
    piega i quattro candidi cavalli,
    questa del Fòro tua solitudine
    ogni rumore vince, ogni gloria;
    e tutto che al mondo è civile,
    grande, augusto, egli è romano ancora.
    Salve, dea Roma! Chi disconósceti
    cerchiato ha il senno di fredda tenebra,
    e a lui nel reo cuore germoglia
    torpida la selva di barbarie.
    Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
    del Fòro, io seguo con dolci lacrime
    e adoro i tuoi sparsi vestigi,
    patria, diva, santa genitrice.
    Son cittadino per te d'Italia,
    per te poeta, madre de i popoli,
    che desti il tuo spirito al mondo,
    che Italia improntasti di tua gloria.
    Ecco, a te questa, che tu di libere
    genti facesti nome uno, Italia,
    ritorna, e s'abbraccia al tuo petto,
    affisa nè tuoi d'aquila occhi.
    E tu dal colle fatal pe 'l tacito
    Fòro le braccia porgi marmoree,
    a la figlia liberatrice
    additando le colonne e gli archi:
    gli archi che nuovi trionfi aspettano
    non più di regi, non più di cesari,
    e non di catene attorcenti
    braccia umane su gli eburnei carri;
    ma il tuo trionfo, popol d'Italia,
    su l'età nera, su l'età barbara,
    su i mostri onde tu con serena
    giustizia farai franche le genti.
    O Italia, o Roma! Quel giorno, placido
    tornerà il cielo su 'l Fòro, e cantici
    di gloria, di gloria, di gloria
    correran per l'infinito azzurro.
    Giosuè Carducci
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Pianto antico

      L'albero a cui tendevi
      la pargoletta mano,
      il verde melograno
      Da' bei vermigli fiori
      Nel muto orto solingo
      Rinverdì tutto or ora,
      E giugno lo ristora
      Di luce e di calor.
      Tu fior de la mia pianta
      Percossa e inaridita,
      Tu de l'inutil vita
      Estremo unico fior,
      Sei ne la terra fredda,
      Sei ne la terra negra;
      Né il sol piú ti rallegra
      Né ti risveglia amor.
      Giosuè Carducci
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Preludio

        Odio l'usata poesia: concede
        comoda al vulgo i flosci fianchi e senza
        palpiti sotto i consueti amplessi
        stendesi e dorme.
        A me la strofe vigile, balzante
        co 'l plauso e 'l piede ritmico nè cori:
        per l'ala a volo io còlgola, si volge
        ella e repugna. Tal fra le strette d'amator silvano
        torcesi un'evia su 'l nevoso Edone:
        più belli i vezzi del fiorente petto
        saltan compressi,
        e baci e strilli su l'accesa bocca
        mesconsi: ride la marmorea fronte
        al sole, effuse in lunga onda le chiome
        fremono à venti.
        Giosuè Carducci
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          San Martino

          La nebbia agli irti colli
          Piovigginando sale,
          E sotto il maestrale
          urla e biancheggia il mar;
          Ma per le vie del borgo
          Dal ribollir dè tini
          Va l'aspro odor de i vini
          L'anime a rallegrar.
          Gira sù ceppi accesi
          Lo spiedo scoppiettando:
          Sta il cacciator fischiando
          Su l'uscio a rimirar
          Tra le rossastre nubi
          Stormi d'uccelli neri,
          Com'esuli pensieri,
          Nel vespero migrar.
          Giosuè Carducci
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Eolia

            Lina, brumaio torbido inclina,
            Ne l'aer gelido monta la sera:
            E a me ne l'anima fiorisce, o Lina,
            La primavera.
            In lume roseo, vedi, il nivale
            Fedriade vertice sorge e sfavilla,
            E di Castalia l'onda vocale
            Mormora e brilla.
            Delfo a' suoi tripodi chiaro sonanti
            Rivoca Apolline co' nuovi soli,
            Con i virginei peana e i canti
            De' rusignoli.
            Da gl'iperborei lidi al pio suolo
            Ei riede, a' lauri dal pigro gelo:
            Due cigni il traggono candidi a volo:
            Sorride il cielo.
            Al capo ha l'aurea benda di Giove;
            Ma nel crin florido l'aura sospira
            E con un tremito d'amor gli move
            In man la lira.
            D'intorno girano come in leggera
            Danza le Cicladi patria del nume,
            Da lungi plaudono Cipro e Citera
            Con bianche spume.
            E un lieve il séguita pe 'l grande Egeo
            Legno, a purpuree vele, canoro:
            Armato règgelo per l'onde Alceo
            Dal plettro d'oro.
            Saffo dal candido petto anelante
            A l'aura ambrosia che dal dio vola,
            Dal riso morbido, da l'ondeggiante
            Crin di viola,
            In mezzo assidesi. Lina, quieti
            I remi pendono: sali il naviglio.
            Io, de gli eolii sacri poeti
            Ultimo figlio,
            Io meco traggoti per l'aure achive:
            Odi le cetere tinnir: montiamo:
            Fuggiam le occidue macchiate rive,
            Dimentichiamo.
            Giosuè Carducci
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Agli amici della valle tiberina

              Pur da queste serene erme pendici
              D'altra vita al rumor ritornerò;
              Ma nel memore petto, o nuovi amici,
              Un desio dolce e mesto io porterò.
              Tua verde valle ed il bel colle aprico
              Sempre, o Bulcian, mi pungerà d'amor;
              Bulciano, albergo di baroni antico,
              Or di libere menti e d'alti cor.
              E tu che al cielo, Cerbaiol, riguardi
              Discendendo da i balzi d'Apennin,
              Come gigante che svegliato tardi
              S'affretta in caccia e interroga il mattin,
              Tu ancor m'arridi. E, quando a i freschi venti
              Di su l'aride carte anelerà
              L'anima stanca, a voi, poggi fiorenti,
              Balze austere e felici, a voi verrà.
              Fiume famoso il breve piano inonda;
              Ama la vite i colli; e, a rimirar
              Dolce, fra verdi querce ecco la bionda
              Spiga in alto a l'alpestre aura ondeggiar.
              De i vecchi prepotenti in su gli spaldi
              Pasce la vacca e mira lenta al pian;
              E de le torri, ostello di ribaldi,
              Crebbe l'utile casa al pio villan.
              Dove il bronzo dè frati in su la sera
              Solo rompeva, od accrescea, l'orror,
              Croscia il mulino, suona la gualchiera
              E la canzone del vendemmiator.
              Coraggio, amici. Se di vive fonti
              Corse, tocco dal santo, il balzo alpin,
              A voi saggi ed industri i patrii monti
              Iscaturiscan di fumoso vin:
              Del vin ch'edúca il forte suolo amico
              Di ferro e zolfo con natia virtú:
              Col quale io libo al padre Tebro antico,
              Al Tebro tolto al fin di servitù.
              Fiume d'Italia, a le tue sacre rive
              Peregrin mossi con devoto amor
              Il tuo nume adorando, e de le dive
              Memorie l'ombra mi tremava in cor.
              E pensai quanto i tuoi clivi Tarconte
              Coronato pontefice salì,
              E, fermo l'occhio nero a l'orizzonte,
              Di leggi e d'armi il popol suo partì;
              E quando la fatal prora d'Enea
              Per tanto mar la foce tua cercò,
              E l'aureo scudo de la madre dea
              In su l'attonit'onde al sol raggiò;
              E quando Furio e l'arator d'Arpino,
              Imperador plebeo, tornava a te,
              E coprivan l'altar capitolino
              Spoglie di galli e di tedeschi re.
              Fiume d'Italia, e tu l'origin traggi
              Da questa Etruria ond'è ogni nostro onor;
              Ma, dove nasci tra gli ombrosi faggi,
              L'agnel ti salta e túrbati il pastor.
              Meglio cosí, che tra marmoree sponde
              Patir l'oltraggio dè chercuti re,
              E con l'orgoglio de le tumid'onde
              L'orme lambire d'un crociato piè.
              Volgon, fiume d'Italia, omai tropp'anni
              Che la vergogna dura: or via, non piú.
              Ecco, un grido io ti do - Morte à tiranni -;
              Portalo, o fiume, a Ponte Milvio, tu.
              Portal con suono ch'ogni suon confonda,
              Portal con le procelle d'Apennin,
              Portalo, o fiume; e un'eco ti risponda
              Dal gran monte plebeo, da l'Aventin.
              Tende l'orecchio Italia e il cenno aspetta:
              Allor chi fia che la vorrà infrenar ?
              Cento schiere di prodi a la vendetta
              Da le tue valli verran teco al mar.
              Risplendi, o fausto giorno. Ahi, se piú tardi,
              Romito e taumaturgo esser vorrò:
              Da la faccia dè rei figli codardi
              Ne le tombe dè padri io fuggirò.
              Con l'arti vò che cielo o inferno insegna
              Da questi monti il foco isprigionar,
              E fiamme in vece d'acqua a Roma indegna,
              Al Campidoglio vile io vò mandar.
              Giosuè Carducci
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Ideale

                Poi che un sereno vapor d'ambrosia
                da la tua coppa diffuso avvolsemi,
                o Ebe con passo di dea
                trasvolata sorridendo via;
                non più del tempo l'ombra o de l'algide
                cure su 'l capo mi sento; sentomi,
                o Ebe, l'ellenica vita
                tranquilla ne le vene fluire.
                E i ruinati giù pe 'l declivio
                de l'età mesta giorni risursero,
                o Ebe, nel tuo dolce lume
                agognanti di rinnovellare;
                e i novelli anni da la caligine
                volenterosi la fronte adergono,
                o Ebe, al tuo raggio che sale
                tremolando e roseo li saluta.
                A gli uni e gli altri tu ridi, nitida
                stella, da l'alto. Tale ne i gotici
                delùbri, tra candide e nere
                cuspidi rapide salïenti
                con doppia al cielo fila marmorea,
                sta su l'estremo pinnacol placida
                la dolce fanciulla di Jesse
                tutta avvolta di faville d'oro.
                Le ville e il verde piano d'argentei
                fiumi rigato contempla aerea,
                le messi ondeggianti nè campi,
                le raggianti sopra l'alpe nevi:
                a lei d'intorno le nubi volano;
                fuor de le nubi ride ella fulgida
                a l'albe di maggio fiorenti,
                a gli occasi di novembre mesti.



                Di Giosuè Carducci:.
                Giosuè Carducci
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