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Sono "già nella Storia del cinema" pur'i 16mm girati da Warhol fra il 1963 e il '64: "Sleep", "Kiss", "Eat", "Blow Job", "Empire", camera fiss'anche per ott'ore e cinque minuti. Ma non sono considerati capolavori della 7a arte. Ciononostante Warhol dimostrav'ancora un senso della misura ipotizzando che "in the future everyone will be world-famous for 15 minutes": un quarto d'ora, non 2 or'e 40. Linklater tesse un'apologia della "banale e in fondo splendida quotidianità d'ogni giorno" (se è quotidiana, non può ch'essere d'ogni giorno) senza motivare tal'elogio d'uno yankeeismo rassegnato alla routine qualunquistica e dove la leggerezza di tocco registico non si distingue dall'impalpabilità del presunto lirismo. "Mentre ridipingono le pareti di casa prima di andarsene via, Mason cancella le righe con le quali la madre ha marcato sul muro la sua crescita in altezza nel tempo: [...] una scena che con pochissimo riesce a riempire gl'occhi di lacrime. Ed è creata con sensibilità sottilissima, come tutti gli altri momenti in cui 'Boyhood' mostra la sua anima più toccante." Ma se sono gli stessi protagonisti a rimanere per primi apatici, indifferenti, ebeti dinanzi all'evento, perché dovremmo sentirlo noi un "colpo al cuore"? Cos'è, fruizione proiettiva? L'unico cas'emblematico di dissapore tra figlio e padre è quando Hawke racont'a Ellar d'aver venduto l'auto che, secondo quest'ultimo, gl'era stata promessa come regalo per il suo 16° compleanno. E Hawke afferma di non ricordare una simile promessa. Ma un tempo che passa senza lasciare tracce, ricordi, memorie, ferite non può ch'essere antidrammatico e antidrammaturgico. N'esce un documentario asettico sull'odierna famiglia allargata, con l'immancabil'epilogo sul "cogli l'attimo" estremizzato sin'all'attimo che coglie noi. Filosofema davvero vertiginoso.

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