Poesie di Ugo Foscolo

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Scritta da: Silvana Stremiz

Il desiderio

Io non invidio ai vati
Le lodi e i sacri allori,
Nè curo i pregi e gli ori
D'un duce o d'un sovran.
     Saran miei dì beati
Se avrò il mio crine cinto
Di serto vario-pinto
Tessuto di tua man.
     Saran miei dì beati
Se in mezzo a bosco ombroso
Il volto tuo vezzoso
Godrommi a contemplar.
     Che bel vederci allora
Mille cambiar sembianti,
E direi: O cori amanti,
Cessate il palpitar!
Ugo Foscolo
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Il ritratto

    Scrivo che tu sei bella,
    Scrivo che tutto è accolto
    Sul grazïoso volto
    De' vezzi il roseo stuol.
         Scrivo che i tuoi dolci occhi
    Vibran soave foco,
    Scrivo.... Ma questo è poco
    Per sì gentil beltà.
         Chi mai potria le grazie
    Spiegar di quei colori,
    Ove si stan gli Amori
    Come sul loro altar?
         Dir altro io mai non seppi
    So non che tanto sei
    Vezzosa agli occhi miei
    Ch'altra non sanno amar.
    Ugo Foscolo
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      Scritta da: Silvana Stremiz
      Padre, quand'io per la tua muta tomba
      Che da sett'anni te per sempre asconde
      Passo gemendo e il gemer si confonde
      Al bronzo che di morte il suon rimbomba;
           Trista memoria allor nel sen, mi piomba
      E ti veggo del letto fra le sponde
      Quel calice libar che in cor t'infonde
      L'ultimo istante che a te intorno romba:

           E veggo il scarso lacrimato pane
      Che dal tuo dipartir a' tuoi Figlioli
      E alla Vedova tua più non rimane.

           E veggo.... ahi lasso! tutto veggo, e tutto
      Che sei morto mi dice, e che a noi soli
      Non altro avanza che miseria e lutto.
      Ugo Foscolo
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        Scritta da: Silvana Stremiz
        Perché, o mie luci, l'angoscioso pianto
        Voi non cessate? Ed al suo cupo affanno
        Non vi piace lasciar l'anima mesta?
        Troppo voi siete a quella doglia inganno
        Che m'è cara soffrir finché sia infranto
        Lo stame a cui s'attien mia vita infesta,
        Ben innanzi accadrà che si rivesta
        Di verde e fiori il prato a mezzo verno
        Pria che m'incresca di mie vive doglie,
        E so il destin mi toglie
        Chi era dè giorni miei pace e governo,
        Almeno alle sue spoglie
        Che omai sotterra son cenere frale
        Si dica sospirando un caldo vale.

        L'amico il Padre è morto: or qual mai speme
        Fia che più resti alle mie brame afflitte
        Se non che la pietà m'apra la fossa?
        Profondamente nel mio sen stan scritte
        Le sante dolci sue parole estreme
        Onde sovente quest'anima è scossa.
        Mi traggon elle a visitar quest'ossa
        Sparger miei voti, e forse al sordo vento;
        Ah! Che mai dissi? Dall'Eterea sede
        Ove beato ei siede
        Non odo il suon del mio triste lamento?
        E del dolor non vede
        L'alta ferita? Ah s'egli è ver cessate
        Lugùbri voci, nè più duol gli date.

        Troppo ci mi amava in terra, e troppo forse
        Se doglia provan dè beati i spirti
        Ei s'addolora alla mia intensa pena.
        Dunque spargiam sulla sua tomba mirti
        E so fosca per lui mia vita scorse
        Per lui ritorni ancor queta e serena.
        Ben troncherassi un dì questa catena
        Grave al mio spirto e goderò di lui
        Ove luce di Dio su ognun si spande.
        Ivi fia che domande
        Dè Frati miei, dè dolci Figli sui,
        O lieto istante, o grande
        Istante, a che ver me ratto non voli
        Onde in braccio al mio Padre io mi consoli?

        Perché m'adduci mai, folle desio,
        A vaneggiar con tai speranze audaci?
        Credi che al mio buon Padre io m'assomigli?
        Ivi egli posa in grembo a liete faci
        Perché con sua saviezza il nembo rio
        Seppe fuggir e del mondo i perigli.
        Fuggir forse sapranli i lassi Figli
        Che nel mondo imboscati a mezza notte
        Soli e confusi ad erme piagge ed erte
        Volgon lor pianto incerte
        Ahi troppo giovanili, e troppo indotte?
        Ma se fia che si merte
        Un giusto grazie, ah! Dal Signor dell'Etra
        Consiglio e Grazie à tuoi pupilli impetra.

        Luce chieggiam e chi l'accenda, o Padre,
        Forse non v'è, forse non v'è chi porga
        Acqua di chiaro fonte a nostra sete.
        Se per te dunque un rio puro non sgorga,
        So non diradi a noi quest'ombre sì adre,
        Chi fia che ci rischiari, e ci dissete?
        Egra già fora in grembo a tua quiete
        Ella che a noi fu Madre, a te fu Sposa;
        Se non che, lassa! Ancor viver si vuole
        Per sua tenera prole,
        Ma del suo lacrimar unqua riposa;
        Anzi meco si duole
        Dicendo, o Figlio, a te chiedo conforto
        Poiché il mio Sposo il mio buon Sposo è morto.

        E qual da me conforto? E quale io posso,
        Padre, se il terzo lustro appena io varco,
        Prestar sollievo a sua doglia cotanta?
        Ahi che mal se di quel soave incarco
        Gravar per anco il mio debile dosso
        Che il tuo gravò per quasi anni quaranta.
        Sol suonan pianto e muto orrore ammanta
        Què dolci lochi ov'io ti vidi un giorno
        Porger à tuoi Figliuoli e baci e pane,
        E in fogge care e strane
        Saltellar essi a tue ginocchia intorno.
        Ed or, ahi! Che rimane
        Altro che aver in grembo gli orfanelli
        E alle lor grida lacrimar con elli?

        O cupa notte! O tenebroso istante!
        O tetra bara, o feretro funebre
        Ove il padre vid'io la volta estrema!
        Dal duolo avvolti e da vostre tenebre
        Venite agli infelici ora d'innante
        Onde ognun sopra voi sospiri e gema.
        Qui mia suora innocente e guarda e trema
        L'istupidita genitrice nostra
        Che fitti ha gli occhi al suol nè fiato manda;
        Qui il fanciul che addomanda
        "Che fu? Che avvenne? " - e mesto indi si prostra.
        E al padre raccomanda
        Quinci il ritorno; e un altro che col dito
        Tergesi i lumi, e fa al suo pianto invito.

        E a squallor tanto in mezzo io con la fronte
        Dalle man sostenuta, i miei sospiri
        Traggo più ardenti, e li rattengo invano.

        Par che d'intorno a me l'ombra s'aggiri
        E dello smorte luci il caldo fonte
        Egli m'asciughi in atto dolce umano:
        Rammento allora qual diemmi la mano
        Qual me la strinse e qual mi benedisse
        Coi sguardi ove mancavangli gli accenti!
        Qual " miei Figli innocenti".
        Disse, " ti raccomando " e più non disse,
        Qual di Angeli fulgenti
        Sull'ale io vidi sgombra del suo volo
        L'alma rapita a innamorare il Cielo.

        Canzon, tu oscura, dolorosa, e sola
        Ove altri orfani stanno in pianto e in duolo
        Drizza gemendo il volo
        Et una amante vedova consola;
        E siegui un Figlio che alla mesta notte
        E alla tacita luna
        Fra lacrime dirotte
        Narra le tempre di sua rea Fortuna:
        Ivi per l'aria bruna
        T'innoltra, e digli in suon d'aura notturna:
        Solo non piangi del tuo Padre all'urna.
        Ugo Foscolo
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          Vigile è il cor sul mio sdegnoso aspetto,
          E qual tu il pingi, Artefice elegante,
          Dal dì ch'io vidi nel mio patrio tetto
          Libertà con incerte orme vagante.

               Armi vaneggio, e il docile intelletto
          Contesi alle febee Vergini sante;
          Armi, armi grido; e Libertade affretto
          Più ognor deluso e pertinace amante.

               Voce inerme che può? Marte raccende,
          Vedilo, all'opre e a sacra ira le genti:
          Siede Italia, e al flagel l'omero tende.

                Pur, se nell'onta della Patria assorte
          Fien mie speranze, e i dì taciti e spenti,
          Per te il mio volto almen vince la morte.



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                Vigile è il cor sul mio sdegnoso aspetto,
          E qual tu il pingi, Artefice elegante,
          Dal dì ch'io vidi nel mio patrio tetto
          Libertà con incerte orme vagante.

               Armi vaneggio, e il docile intelletto
          Contesi alle febee Vergini sante;
          Armi, armi grido; e Libertade affretto
          Più ognor deluso e pertinace amante.

               Voce inerme che può? Marte raccende,
          Vedilo, all'opre e a sacra ira le genti:
          Siede Italia, e al flagel l'omero tende.

                Pur, se nell'onta della Patria assorte
          Fien mie speranze, e i dì taciti e spenti,
          Per te il mio volto almen vince la morte.
          Ugo Foscolo
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            Scritta da: Silvana Stremiz
            Forse perché della fatal quïete
                 tu sei l'immago, a me sì cara vieni
                 o sera! E quando ti corteggian liete
                 le nubi estive e i zèffiri sereni,

            5    e quando dal nevoso aere inquïete
                 tenebre e lunghe all'universo meni,
                 sempre scendi invocata, e le secrete
                 vie del mio cor soavemente tieni.

                 Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
            10 che vanno al nulla eterno, e intanto fugge
                 questo reo tempo, e van con lui le torme

                 delle cure onde meco egli si strugge;
                 e mentre io guardo la tua pace, dorme
                 quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.

                 [dai Sonetti]
            Ugo Foscolo
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Fanciulletta bella

              Di giovinezza, Fanciulletta bella,
              Dal tuo bel petto spira fresco odore,
              E da quei labbri con gentil favella
              Sol parla Amore.
                   Vaga è tua mano; ma più vaga allora
              Che a puro bacio facile s'arrende,
              E allor ch'ai crini della gaja Flora
              Cinge le bende.
                   Questi mi detta dolci carmi Apollo,
              Se mai t'ascolta, Fanciulletta bella,
              Sparger di canti con la cetra al collo
              Iblea favella.
                   Canta, deh! canta; scenderan da Paffo
              Ad ascoltarti con l'orecchie amanti
              Quei stessi Amor che della mesta Saffo
              Pianser ai canti.
                   Io son, diceva, bella Dea di Gnido,
              La giovinetta cui Faon non cura,
              Per lui sol piango, mentre in ogni lido
              Ride natura.
                   Madre del riso, dal beante seno,
              Me ch'al tuo nume sempre altari alzai,
              Me ch'arsi incenso d'inni e laudi pieno,
              Or traggo guai.
                   Siegui di Lesbo la soave Musa,
              Ma scherza, e fuggi lagrimose note,
              Giacché domarti l'almo Dio ricusa,
              Perché nol puote.
                   Che val sui fogli con cipiglio tristo
              Perdere i giorni che tornar non ponno,
              E violare per un vano acquisto
              I dritti al sonno?
                   Nata agli Amori, le scïeuti carte
              Abbandonando, sol la cetra tocca:
              Chè di bei carmi la difficil arte
              Ti siede in bocca.
              Ugo Foscolo
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