Scritta da: Silvana Stremiz

Anniversario (1889)

Sono più di trent'anni e, di queste ore,
mamma, tu con dolor m'hai partorito;
ed il mio nuovo piccolo vagito
t'addolorava più del tuo dolore.
Poi tra il dolore sempre ed il timore,
o dolce madre, m'hai di te nutrito:
e quando fui del corpo tuo vestito,
quand'ebbi nel mio cuor tutto il tuo cuore,
allor sei morta; e son vent'anni: un giorno!
E già gli occhi materni io penso a vuoto;
e il caro viso già mi si scolora;
mamma, e più non ti so. Ma nel soggiorno
freddo dè morti, nel tuo sogno immoto,
tu m'accarezzi i riccioli d'allora.
Giovanni Pascoli
dal libro "Myricae" di Giovanni Pascoli
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Nevicata

    Nevica: l'aria brulica di bianco;
    la terra è bianca; neve sopra neve:
    gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco:
    cade del bianco con un tonfo lieve.
    E le ventate soffiano di schianto
    e per le vie mulina la bufera;
    passano bimbi: un balbettìo di pianto;
    passa una madre: passa una preghiera.
    Giovanni Pascoli
    dal libro "Myricae" di Giovanni Pascoli
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Il poeta solitario

      O dolce usignolo che ascolto
      (non sai dove), in questa gran pace
      cantare cantare tra il folto,
      là, dei sanguini e delle acace;
      t'ho presa - perdona, usignolo -
      una dolce nota, sol una,
      ch'io canto tra me, solo solo,
      nella sera, al lume di luna.
      E pare una tremula bolla
      tra l'odore acuto del fieno,
      un molle gorgoglio di polla,
      un lontano fischio di treno...
      Chi passa, al morire del giorno,
      ch'ode un fischio lungo laggiù
      riprende nel cuore il ritorno
      verso quello che non è più.
      Si trova al nativo villaggio,
      vi ritrova quello che c'era:
      l'odore di mesi-di-maggio
      buon odor di rose e di cera.
      Ne ronzano le litanie,
      come l'api intorno una culla:
      ci sono due voci sì pie!
      Di sua madre e d'una fanciulla.
      Poi fatto silenzio, pian piano,
      nella nota mia, che t'ho presa,
      risente squillare il lontano
      campanello della sua chiesa.
      Riprende l'antica preghiera,
      ch'ora ora non ha perché;
      si trova con quello che c'era,
      ch'ora ora ora non c'è...
      Chi sono? Non chiederlo. Io piango,
      ma di notte, perch'ho vergogna.
      O alato, io qui vivo nel fango.
      Sono un gramo rospo che sogna.
      Giovanni Pascoli
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Fanciullo Mendico (Canti di Castelvecchio)

        Ho nel cuore la mesta parola
        d'un bimbo ch'all'uscio mi viene.
        Una lagrima sparsi, una sola,
        per tante sue povere pene;
        e pur quella pensai che vanisse
        negl'ispidi riccioli ignota:
        egli alzò le pupille sue fisse,
        sentendosi molle la gota.
        E io, quasi chiedendo perdono,
        gli tersi la stilla smarrita,
        con un bacio, e ponevo il mio dono
        tra quelle sue povere dita.
        Ed allora ne intesi nel cuore
        la voce che ancora vi sta:
        Non li voglio: non voglio, signore,
        che scemi le vostra pietà.
        E quand'egli già fuor del cancello
        riprese il solingo sentiero,
        io sentii, che, il suo grave fardello,
        godeva a portarselo intiero:
        e chiamava sua madre, che sorta
        pareva da nebbie lontane,
        a vederlo; poi ch'erano, morta
        lei, morta! Ma lui senza pane.
        Giovanni Pascoli
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Temporale

          È mezzodì. Rintomba.
          Tacciono le cicale
          nelle stridule seccie.
          E chiaro un tuon rimbomba
          dopo uno stanco, uguale,
          rotolare di breccie.
          Rondini ad ali aperte
          fanno echeggiar la loggia
          dè lor piccoli scoppi.
          Già, dopo l'afa inerte,
          fanno rumor di pioggia
          le fogline dei pioppi.
          Un tuon sgretola l'aria.
          Sembra venuto sera.
          Picchia ogni anta su l'anta.
          Serrano. Solitaria
          s'ode una capinera,
          là, che canta... che canta...
          E l'acqua cade, a grosse
          goccie, poi giù a torrenti,
          sopra i fumidi campi.
          S'è sfatto il cielo: a scosse
          v'entrano urlando i venti
          e vi sbisciano i lampi.
          Cresce in un gran sussulto
          l'acqua, dopo ogni rotto
          schianto ch'aspro diroccia;
          mentre, col suo singulto
          trepido, passa sotto
          l'acquazzone una chioccia.
          Appena tace il tuono,
          che quando al fin già pare,
          fa tremare ogni vetro,
          tra il vento e l'acqua, buono,
          s'ode quel croccolare
          cò suoi pigolìi dietro.
          Giovanni Pascoli
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Il cuore del cipresso

            O cipresso, che solo e nero stacchi
            dal vitreo cielo, sopra lo sterpeto
            irto di cardi e stridulo di biacchi:

            in te sovente, al tempo delle more,
            odono i bimbi un pispillìo secreto,
            come d'un nido che ti sogni in cuore.

            L'ultima cova. Tu canti sommesso
            mentre s'allunga l'ombra taciturna
            nel tristo campo: quasi, ermo cipresso,
            ella ricerchi tra què bronchi un'urna.

            Più brevi i giorni,
            e l'ombra ogni dì meno
            s'indugia e cerca, irrequieta, al sole;
            e il sole è freddo e pallido il sereno.

            L'ombra, ogni sera prima, entra nell'ombra:
            nell'ombra ove le stelle errano sole.
            E il rovo arrossa e con le spine ingombra

            tutti i sentieri, e cadono già roggie
            le foglie intorno (indifferente oscilla
            l'ermo cipresso), e già le prime pioggie
            fischiano, ed il libeccio ulula e squilla.

            E il tuo nido? Il tuo nido?... Ulula forte
            il vento e t'urta e ti percuote a lungo:
            tu sorgi, e resti; simile alla Morte.

            E il tuo cuore? Il tuo cuore?... Orrida trebbia
            l'acqua i miei vetri, e là ti vedo lungo,
            di nebbia nera tra la grigia nebbia.

            E il tuo sogno? La terra ecco scompare:
            la neve, muta a guisa del pensiero,
            cade. Tra il bianco e tacito franare
            tu stai, gigante immobilmente nero.
            Giovanni Pascoli
            dal libro "Myricae" di Giovanni Pascoli
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Il Pesco

              Penso a Livorno, a un vecchio cimitero
              di vecchi morti; ove a dormir con essi
              niuno più scende; sempre chiuso; nero
              d'alti cipressi.
              Tra i loro tronchi che mai niuno vede,
              di là dell'erto muro e delle porte
              ch'hanno obliato i cardini, si crede
              morta la Morte,
              anch'essa. Eppure, in un bel dì d'Aprile,
              sopra quel nero vidi, roseo, fresco,
              vivo, dal muro sporgere un sottile
              ramo di pesco.
              Figlio d'ignoto nòcciolo, d'allora
              sei tu cresciuto tra gli ignoti morti?
              Ed ora invidii i mandorli che indora
              l'alba negli orti?
              Od i cipressi, gracile e selvaggio,
              dimenticàti, col tuo riso allieti,
              tu trovatello in un eremitaggio
              d'anacoreti?
              Giovanni Pascoli
              dal libro "Myricae" di Giovanni Pascoli
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Lavandare

                Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
                resta un aratro senza buoi, che pare
                dimenticato, tra il vapor leggero.
                E cadenzato dalla gora viene
                lo sciabordare delle lavandare
                con tonfi spessi e lunghe cantilene:
                Il vento soffia e nevica la frasca,
                e tu non torni ancora al tuo paese!
                Quando partisti, come son rimasta!
                Come l'aratro in mezzo alla maggese.
                Giovanni Pascoli
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Viole d'inverno

                  - Donde, o vecchina, queste violette
                  serene come un lontanar di monti
                  nel puro occaso? Poi che il gelo ha strette
                  tutte le fonti;
                  il gelo brucia dalle stelle, o nonna,
                  ogni foglia, ogni radica, ogni zolla. -
                  - Tiepida, sappi, lungo la Corsonna
                  geme una polla.
                  Là noi sciacquiamo il candido bucato
                  nell'onda calda in mezzo a nevi e brine;
                  e il poggio è pieno di viole, e il prato
                  di pratelline. -
                  Ah!... ma, poeta, non ancor nel pio
                  tuo cuore è l'onda che discioglie il gelo?
                  Non è la polla, calda nell'oblio
                  freddo del cielo?
                  Ché sempre, se ti agghiaccia la sventura,
                  se l'odio altrui ti spoglia e ti desola,
                  spunta, al tepor dell'anima tua pura,
                  qualche viola.
                  Giovanni Pascoli
                  dal libro "Myricae" di Giovanni Pascoli
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