Le migliori poesie inserite da Silvana Stremiz

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Scritta da: Silvana Stremiz

Il Cavallino

O bel clivo fiorito Cavallino
ch'io varcai cò leggiadri eguali a schiera
al mio bel tempo; chi sa dir se l'era
d'olmo la tua parlante ombra o di pino?
Era busso ricciuto o biancospino,
da cui dorata trasparia la sera?
C'è un campanile tra una selva nera,
che canta, bianco, l'inno mattutino?
Non so: ché quando a te s'appressa il vano
desìo, per entro il cielo fuggitivo
te vedo incerta vision fluire.
So ch'or sembri il paese allor lontano
lontano, che dal tuo fiorito clivo
io rimirai nel limpido avvenire.
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Forse un mattino

    Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
    arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
    il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
    di me, con un terrore da ubriaco.

    Poi, come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
    alberi, case, colli per l'inganno consueto.
    Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
    tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      La casa dei doganieri

      Tu non ricordi la casa dei doganieri
      sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
      desolata t'attende dalla sera
      in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
      e vi sostò irrequieto.

      Libeccio sferza da anni le vecchie mura
      e il suono del tuo riso non è più lieto:
      la bussola va impazzita all'avventura
      e il calcolo dei dadi più non torna.

      Tu non ricordi; altro tempo frastorna
      la tua memoria; un filo s'addipana.

      Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
      la casa e in cima al tetto la banderuola
      affumicata gira senza pietà.
      Ne tengo un capo; ma tu resti sola
      nè qui respiri nell'oscurità.

      Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
      rara la luce della petroliera!
      Il varco è qui? (ripullula il frangente
      ancora sulla balza che scoscende... ).
      Tu non ricordi la casa di questa
      mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Quanto ancor più bella sembra la bellezza (Sonetto 54)

        Quanto ancor più bella sembra la bellezza,
        per quel ricco ornamento che virtù le dona!
        Bella ci appar la rosa, ma più bella la pensiamo
        per la soave essenza che vive dentro a lei.
        Anche le selvatiche hanno tinte molto intense
        simili al colore delle rose profumate,
        hanno le stesse spine e giocano con lo stesso brio
        quando la brezza d'estate ne schiude gli ascosi boccioli:
        ma poiché il loro pregio è solo l'apparenza,
        abbandonate vivono, sfioriscono neglette e
        solitarie muoiono. Non così per le fragranti rose:
        la loro dolce morte divien soavissimo profumo:
        e così è; per te, fiore stupendo e ambito,
        come appassirai, i miei versi stilleran la tua virtù.
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          Scritta da: Silvana Stremiz
          Io sono innamorato di tutte le signore
          che mangiano le paste nelle confetterie.

          Signore e signorine -
          le dita senza guanto -
          scelgon la pasta. Quanto
          ritornano bambine!

          Perché nïun le veda,
          volgon le spalle, in fretta,
          sollevan la veletta,
          divorano la preda.

          C'è quella che s'informa
          pensosa della scelta;
          quella che toglie svelta,
          né cura tinta e forma.

          L'una, pur mentre inghiotte,
          già pensa al dopo, al poi;
          e domina i vassoi
          con le pupille ghiotte.

          Un'altra - il dolce crebbe -
          muove le disperate
          bianchissime al giulebbe
          dita confetturate!

          Un'altra, con bell'arte,
          sugge la punta estrema:
          invano! Ché la crema
          esce dall'altra parte!

          L'una, senz'abbadare
          a giovine che adocchi,
          divora in pace. Gli occhi
          altra solleva, e pare

          sugga, in supremo annunzio,
          non crema e cioccolatte,
          ma superliquefatte
          parole del D'Annunzio.

          Fra questi aromi acuti,
          strani, commisti troppo
          di cedro, di sciroppo,
          di creme, di velluti,

          di essenze parigine,
          di mammole, di chiome:
          oh! Le signore come
          ritornano bambine!

          Perché non m'è concesso -
          o legge inopportuna! -
          il farmivi da presso,
          baciarvi ad una ad una,

          o belle bocche intatte
          di giovani signore,
          baciarvi nel sapore
          di crema e cioccolatte?

          Io sono innamorato di tutte le signore
          che mangiano le paste nelle confetterie.
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            La stella

            Perdettero la stella un giorno.
            Come si a perdere
            La stella? Per averla troppo a lungo fissata…
            I due re bianchi,
            ch'eran due sapienti di Caldea,
            tracciaron al suolo dei cerchi, col bastone.

            Si misero a calcolare, si grattarono il mento…
            Ma la stella era svanita come svanisce un'idea,
            e quegli uomini, la cui anima
            aveva sete d'essere guidata,
            piansero innalzando le tende di cotone.

            Ma il povero re nero, disprezzato dagli altri,
            si disse: " Pensiamo alla sete che non è la nostra.
            Bisogna dar da bere, lo stesso, agli animali":

            E mentre sosteneva il suo secchio per l'ansa,
            nello specchio di cielo
            in cui bevevano i cammelli
            egli vide la stella d'oro che danzava in silenzio.
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Desolazione del povero poeta sentimentale

              Perché tu mi dici: poeta?
              Io non sono un poeta.
              Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
              Vedi: non ha che le lagrime da offrire al Silenzio.
              Perché tu mi dici: poeta?
              Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
              Le mie gioie furono semplici,
              sempilci così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
              Oggi io penso a morire.
              Io voglio morire, solamente perché sono stanco;
              solamente perché i grandi angioli
              su le vetrate delle cattedrali
              mi fanno tremare d'amore e di angoscia;
              solamente perché, io sono, oramai,
              rassegnato come uno specchio,
              come un povero specchio melanconico.
              Vedi che io non sono un poeta:
              sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
              Oh, non meravigliarti della mia tristezza!
              E non domandarmi;
              io non saprei dirti che parole così vane,
              Dio mio così vane,
              che mi verrebbe da piangere come se fossi per morire.
              Le mie lagrime avrebbero l'aria
              di sgranare un rosario di tristezza
              davanti alla mia anima sette volte dolente
              ma io non sarei un poeta;
              sarei semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
              cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
              Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
              E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
              poiché senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
              Questa notte ho dormito con le mani in croce.
              Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
              dimenticato da tutti gli umani,
              povera tenera preda del primo venuto;
              e desiderai di essere venduto,
              di essere battuto
              di essere costretto a digiunare
              per potermi mettere a piangere tutto tutto solo,
              disperatamente triste,
              in un angolo oscuro.
              Io amo la vita semolice delle cose.
              Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
              per ogni cosa che se ne andava!
              Ma tu non mi comprendi e sorridi.
              E pensi che io sia malato.
              Oh, io sono veramente malato!
              E muoio, un poco, ogni giorno.
              Vedi: come le cose.
              Non sono, dunque, un poeta:
              io so che per esser detto: poeta, conviene
              viver ben altra vita!
              Io non so, Dio mio, che morire.
              Amen.
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