Meno facile di quanto previsto
dissimulare agnizioni reciproche,
od un'inappartenenza comune;
lasciare che la crepa – iato o cuneo –
s'insinui, invigilate scaturigini
qui presso noi immorare, grevi alibi.
O immaginarti in questo vento, il tuo
paese – case rosse sotto un cielo
grigio – ed il mare, all'orizzonte termine;
e tangenze e infiniti voli tessere
l'ordito a consumate traiettorie,
sghembe rette per asseverative
coordinate – una stilla d'angoscia –
tuoi pensieri transeunti. E scoprirsi
distanti. Separati. Una passione
ci avvince; uguali espressioni latenti
(non era forse nella tua venuta
la mia salvezza?) lontani ribattono
strabi cigli. Ragnatela magnetica
i tuoi capelli: spengeva l'afrore
delle fole, che fra nebbia affoltantesi
e davanzale gli ambrati tramonti
schiarivano di settembre. Malcauto
autunno e il cedro decombente
nella sua solitudine ricurvo:
sigillarne il trapasso leonina
una rima: "ridacci, brezza, eterni
quegli istanti...." Ridursi ad astante, unico,
come allora, ora, il vuoto.
Sebastiano Vanazzi
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    Ti chiedo, che più con il tuo fantasma
    queste mie ore di pena vacillante
    tormenti - anche la nebbia con la sua orma
    vaporosa solca le rare macchie
    erbose di passo: segno non lascia!;
    così tu abbarbicati ad un pensiero
    (o ricordo bizzarro
    o straniato sogno) e torna al tuo limbo
    di fiori abbuiati, d'oscure stelle
    (traccia non lasciare, assorta Chloé).
    Sebastiano Vanazzi
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      A te che danzi

      Guarda: anche le nuvole sono polvere
      che il vento scompone in questa pallida
      sera d'estate: il lontano granito
      s'arrubina del sorriso nell'ultima
      sua passione dal sole
      lambito. I sussurri echeggiati ascoltane
      (non sono forse anch'essi
      contrappunto al tuo pianto?): si disperdono
      solitari fra l'erba, nella tiepida
      verosimiglianza che offre ogni oggetto,
      ogni figura sul fondo moventesi
      del tuo salone; risolviti, intrepida,
      schiudi la finestra - l'arcana brezza
      più non t'attenderà! - già l'adombrato
      cielo di cristallo questa tua rosea
      figura china illumina:
      il fuoco delle tue palpebre già
      attende la mattina.
      Sebastiano Vanazzi
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        La sciaradda fumigante del vespro
        ha punte di cromorno che soltanto
        il lento commovimento del vento
        sa pazientemente addipanare.

        La nota che l'eco adusta riverbera
        è una scheggia smorzata sopra il rame
        dell'orizzonte; rameggia un silenzio
        nel profondo dell'ora. Stride querula

        l'oscura epifania della sera;
        si snodano i destini: come tónfano
        attempato disperdono la brace
        promessa all'argento striato alcuni

        accordi in lontananza; una voce alida
        si prova a modularli con arpeggi.
        Ma il turbine ondoso con le criniere
        d'un diospero sommuove anche il tuo

        albagioso parlare. S'incupisce
        la stanza trinata mentre lo spettro
        della finestra vanisce; una brezza,
        dipoi un attonito bisbigliare:

        il profilo marezzato si spunta
        di frondi magnioliacee, auso antro
        d'un poggio anellato in derelizione.
        Stagliata contro romite nuvole
        di cenere, svaria roggia la voce

        arrochita d'una scaglia di luna.
        Sebastiano Vanazzi
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          Sei la china in cui si stempra la notte;
          soltanto abbarbagliano queste crepe
          d'asfalto nell'uggia abbozzata luci
          riecheggiate fra un discosto lampione
          e lo scalpiccio del tuo passo isocrono.

          Sulla strada taciturna la tua ombra
          incede ponderosa nella fuga
          da una rimembranza che non è tua:
          impronte seriche ed uranoliti
          s'increspano fra le tue dita; un'ambra

          balugina distratta sopra un gelso:
          tu la cogli, non appena un'incauta
          pioggia lambisce il cristallo che porti
          nei tuoi occhi. Entro il cerchio silenzioso
          del tuo profilo, una lacrima svetti.

          La lasci cadere in un tuo sospiro,
          ritorni verso casa, persuasiva
          che tribolare senza avvedersene
          non si preroga alle zuffe di piume...
          il pencolare d'ogni tuo pensiero

          quella sera era pegno d'infinito.
          Sebastiano Vanazzi
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            Corimbi anelanti sommossi dal vento,
            rabido contrappuntare ai profili
            scarruffati di cime profondate
            nella nebbia roca, vocio attonito
            che rabbercia il silenzio abbarbagliato
            fra i ramigli di novembre, smagliare
            d'un refe di memorie che pencola
            fra il muto carcame di foglie aggricchiate,
            aggallare di pietre affastellate:
            un ponte e poi il varco. Arrivederci
            – fugano sistri ctonî la belletta
            che vagolava l'ultimo fantasma –
            oltre le infiorescenze, a finisterre.
            Sebastiano Vanazzi
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              Non sei la morte e neppure un sorriso;
              voluttà ch'è impressa sulle tue labbra
              e ordito lenocinio sul tuo viso
              si contemperano oscuri sull'ambra

              del tuo sassofono. Ora sogguardi algida
              le trine del tuo davanzale e forse
              le voci dello sferzante sinibbio
              s'inflettono e s'addormentano leni

              fra le tue dita. Ancora una tua vita
              t'è sfuggita rapinosa e repenta...
              e un incauto petalo s'adagia
              pencolante d'ansia sopra il tuo cuore.

              Un guardo tuo illumina l'aria e smorza
              taciturno accanto ad una stupita
              fata addormentata; dipoi, reclina,
              sotto le tue ciglia i tuoi occhi tacciono

              come, prospiciente l'aureo letto,
              vanisce invigilato il tuo sassofono.
              Sebastiano Vanazzi
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