Lì, da dove forse si vede ancora il mare

Severi come antichi
romani anfiteatri
d'imperiale vastità
svuotati spazi sconfinati
di eliocentriche loro piazze
come fori di antiche civiltà
staccano da superbi viali
le loro imponenti stazze
e a quelli impongono distanze
tra pareti vigorose
magnifiche quinte di edifici in fila
dove il silenzio
mi onora la memoria
dove il silenzio
a noi mi riavvicina
fino a quell'angolo incastonato
di timida collina
che si diparte dalla via Eufrate
per poi in vetta risalire
sopra il suo più alto edificio
che forte dell'altezza
verso il tramonto a sud s'eleva
esule di sua fierezza
come una torre
in copertura si completa
lì, nell'abbarbicato attico lunare
lì, da dove forse
si vede ancora il mare.

Lì, da dove forse
meglio si può immaginare
di questa città il suo più vicino mare
lì, dove barriere verdi
e il quasi nullo circolar di mezzi
detrona la città
dei suoi più insiti rumori
per restituirne
solo dolci e lieti suoni
o profumi di romana
campagna rigogliosa
come se da un'altr'epoca
oggi è rivendicata
e subito è riesplosa
e qui nel suo quartiere, riscongelata
e qui, su questa via
nella sua freschezza riconsegnata.

Lì, che il mio cammin si ferma
e pensa tanto
per quanto sembra
sotto un azzurro plastico
di cielo colorato
sospeso il tempo in questo spazio
oggi dal sole arroventato
oggi di ricordi permeato.

Argini di metafisici viali
s'infrangono per miscelarsi
a briosi zampilli di fontane
che animano lapidee vasche
dai loro gelidi fondali.

E sempre quelle piste
disegnate su quei viali
hanno come cigli
facciate monumentali
di razionali architetture
che ardono di luce
per venire colorate
di un marmo bianco che risplende
nei porticati di romane arcate
ad inquadrare le sue strutture
dove in esse
quel nero di lunghe ombre
prende posto
per la morsa di questa equtoriale
domenica d'agosto.

La grande Urbe
è Accademia d'architettura
ed ha qui, il suo laboratorio
la sua aula magna
dove tra svuotati spazi
di fontane e verde
regna il fragore di quell'acqua
e nel cammino, la mente mia si perde
in un silenzio che appare finto
campagna mascherata
di bianca pietra e cemento.

Fino a che giungo davanti a quello
mai come oggi così severo
algido prisma
con in base un quadrato
che dai suoi occhi d'archi
sprigiona la fierezza
di un popolo e la sua grandezza
in quella scritta in esso incisa
sopra l'attico di un gelido prospetto
come pure quella
di un altro un po' più in là
che innalza la sua città
sopra il più esaltato auspicio
di florida ed eterna imperialità.

Ma tutto questo mi rimanda
ad un tempo a me sempre caro
quando guardo l'obelisco
dell'imperiale incrocio
e presto una staffilata
m'arriva come un grave
nel precipitare giù dal cielo
che sembra voglia il mio finale
e s'infila come una lama
dentro la mia schiena
ma non è altro che il pensiero
di un primo incontro
nel lontano autunno di una sera
e l'obelisco che una volta
lume dei nostri incontri
come un gigante buono era
ora è solo un inanimato masso
che spietato mi crolla addosso
e in un attimo mi stende
sentire dopo, fissa una ferita
che feroce, il mio cuore fende
nei ricordi
travolto da sue onde
di mare che tradisce
e immobilizza le mie gambe
la solitudine m'immerge
finché atterra il mio morale
in sintonia con un clima
d'algida bellezza
e mai come oggi
soffocante e surreale.

E poi il tutto, di nuovo mi riporta
solo in seno a quel mistero
in fondo all'angolo incantato
tra un'austera chiesa e un monastero
lungo la via E... frate
spazio dal silenzio raggelato
più che mai, in questa domenica d'estate
dove profumi di flora estiva
stordisce olfatto e il mio pensiero
che di ricordi è già inebriato.

E punto su lo sguardo
dove la memoria veloce scatta
disegnando in quell'afosa
serra emozionale
fotochimica d'ozono cappa
noi e il nostro litorale
a Lei così vicino
e da qui così lontano
in un radioso deserto urbano
che brilla di bianco travertino
ma un leggero vento muove foglia
che sembra compiaciuta
per avermi fatto compagnia
nell'essersi posata sopra il mio sellino.

Quindi ancor vita è
musica che rinasce
nell'ascoltare e immaginare
da lontane spiaggie
concitate voci dietro quella siepe
poco prima che un amor finisce
quand'eravamo ancora insieme.

Come si può
dimenticare e poi continuare
come si può
dimenticare senza morire
e non resta che soltanto
da un caldo esasperato
farsi annichilire
dentro un imbalsamato
fanatico quartiere
io qui con lui solo
per meglio risentire
la lama dentro rigirare
di solitudine spietata
com'è d'agosto la domenica
in quest'angolo di città
mai come ora, così dimenticata
in questo tempo e in questo luogo
oggi ancor più desolato
della sua normalità.

Ma in questo giorno e fino in fondo
io qui, voglio restare
per farmi a tutto tondo
da ogni lato anninentare
sempre e solo
dal solito dolore
che oggi voglio a viso aperto
di nuovo risfidare
dove in quest'innaturale
timido silenzio
che sembra d'oltremare
il cuore mio
riesco meglio ad ascoltare
dove il suo fuoco
e del caldo alto di quest'ora
i miei ricordi
sembran tutti dover bruciare
dove quella lama di solitudine
che taglia vita e toglie aria
qui, riesce meglio
dentro me a sprofondare.

Dove ancor vivo è il mio pensiero
di noi su quel mare
ed oggi, è quasi un anno
che solo perse tracce, di noi rimane
nostri ultimi momenti su quelle spiaggie
e qui, meglio che in ogni altro spazio
com'in un eremo di pace
nel mio lento pedalare
spontaneo dal cuor m'esce
un dolce rimembrare.

Qui, dove lassù in quell'osservatorio
il mio sguardo ha il suo magnete
rifugio in attico tamponato
da schermi di laterizio traforato
a sembrar come una torre
di romantica prigione
che detiene come in gabbia
il mio cuor sgomento
solo e imprigionato
ma lì, forse con la sua mente
nel più profondo raccoglimento
risece meglio, il ricordo ad esplorare
risece meglio, la sua memoria a navigare
lì, da dove forse
il mio cuore crede ancora
che si vede noi
che si vede il mare.
Composta domenica 12 agosto 2012

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