Poesie di Giacomo Leopardi

Poeta, filosofo, scrittore, filologo e glottologo, nato martedì 19 giugno 1798 a Recanati (Italia), morto mercoledì 14 giugno 1837 a Napoli (Italia)
Questo autore lo trovi anche in Frasi & Aforismi.

Scritta da: Violina Sirola

Bruto minore

Poi che divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa
L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio dè barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve
Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, dè necessarii danni
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor né molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera né boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni
Virile alma ricusa,
Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e dè lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Né rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se il fato ignavo pende,
Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando né danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti
L'onor d'egregie menti e la suprema
Dè miseri vendetta. A me d'intorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.
Giacomo Leopardi
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    Coro dei morti nello studio di Federico Ruysch

    Sola nel mondo eterna, a cui si volve
    Ogni creata cosa,
    In te, morte, si posa
    Nostra ignuda natura;
    Lieta no, ma sicura
    Dall'antico dolor. Profonda notte
    Nella confusa mente
    Il pensier grave oscura;
    Alla speme, al desio, l'arido spirto
    Lena mancar si sente:
    Così d'affanno e di temenza è sciolto,
    E l'età vote e lente
    Senza tedio consuma.
    Vivemmo: e qual di paurosa larva,
    E di sudato sogno,
    A lattante fanciullo erra nell'alma
    Confusa ricordanza:
    Tal memoria n'avanza
    Del viver nostro: ma da tema è lunge
    Il rimembrar. Che fummo?
    Che fu quel punto acerbo
    Che di vita ebbe nome?
    Cosa arcana e stupenda
    Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
    Qual dè vivi al pensiero
    L'ignota morte appar. Come da morte
    Vivendo rifuggia, così rifugge
    Dalla fiamma vitale
    Nostra ignuda natura;
    Lieta no ma sicura,
    Però ch'esser beato
    Nega ai mortali e nega à morti il fato.
    Giacomo Leopardi
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Il Risorgimento

      Credei ch'al tutto fossero
      In me, sul fior degli anni,
      Mancati i dolci affanni
      Della mia prima età:
      I dolci affanni, i teneri
      Moti del cor profondo,
      Qualunque cosa al mondo
      Grato il sentir ci fa.

      Quante querele e lacrime
      Sparsi nel novo stato,
      Quando al mio cor gelato
      Prima il dolor mancò!
      Mancàr gli usati palpiti,
      L'amor mi venne meno,
      E irrigidito il seno
      Di sospirar cessò!

      Piansi spogliata, esanime
      Fatta per me la vita
      La terra inaridita,
      Chiusa in eterno gel;
      Deserto il dì; la tacita
      Notte più sola e bruna;
      Spenta per me la luna,
      Spente le stelle in ciel.

      Pur di quel pianto origine
      Era l'antico affetto:
      Nell'intimo del petto
      Ancor viveva il cor.
      Chiedea l'usate immagini
      La stanca fantasia;
      E la tristezza mia
      Era dolore ancor.

      Fra poco in me quell'ultimo
      Dolore anco fu spento,
      E di più far lamento
      Valor non mi restò.
      Giacqui: insensato, attonito,
      Non dimandai conforto:
      Quasi perduto e morto,
      Il cor s'abbandonò.

      Qual fui! Quanto dissimile
      Da quel che tanto ardore,
      Che sì beato errore
      Nutrii nell'alma un dì!
      La rondinella vigile,
      Alle finestre intorno
      Cantando al novo giorno,
      Il cor non mi ferì:

      Non all'autunno pallido
      In solitaria villa,
      La vespertina squilla,
      Il fuggitivo Sol.
      Invan brillare il vespero
      Vidi per muto calle,
      Invan sonò la valle
      Del flebile usignol.

      E voi, pupille tenere,
      Sguardi furtivi, erranti,
      Voi dè gentili amanti
      Primo, immortale amor,
      Ed alla mano offertami
      Candida ignuda mano,
      Foste voi pure invano
      Al duro mio sopor.

      D'ogni dolcezza vedovo,
      Tristo; ma non turbato,
      Ma placido il mio stato,
      Il volto era seren.
      Desiderato il termine
      Avrei del viver mio;
      Ma spento era il desio
      Nello spossato sen.

      Qual dell'età decrepita
      L'avanzo ignudo e vile,
      Io conducea l'aprile
      Degli anni miei così:
      Così quegl'ineffabili
      Giorni, o mio cor, traevi,
      Che sì fugaci e brevi
      Il cielo a noi sortì.

      Chi dalla grave, immemore
      Quiete or mi ridesta?
      Che virtù nova è questa,
      Questa che sento in me?
      Moti soavi, immagini,
      Palpiti, error beato,
      Per sempre a voi negato
      Questo mio cor non è?

      Siete pur voi quell'unica
      Luce dè giorni miei?
      Gli affetti ch'io perdei
      Nella novella età?
      Se al ciel, s'ai verdi margini,
      Ovunque il guardo mira,
      Tutto un dolor mi spira,
      Tutto un piacer mi dà.

      Meco ritorna a vivere
      La piaggia, il bosco, il monte;
      Parla al mio core il fonte,
      Meco favella il mar.
      Chi mi ridona il piangere
      Dopo cotanto obblio?
      E come al guardo mio
      Cangiato il mondo appar?

      Forse la speme, o povero
      Mio cor, ti volse un riso?
      Ahi della speme il viso
      Io non vedrò mai più.
      Proprii mi diede i palpiti,
      Natura, e i dolci inganni.
      Sopiro in me gli affanni
      L'ingenita virtù;

      Non l'annullàr: non vinsela
      Il fato e la sventura;
      Non con la vista impura
      L'infausta verità.
      Dalle mie vaghe immagini
      So ben ch'ella discorda:
      So che natura è sorda,
      Che miserar non sa.

      Che non del ben sollecita
      Fu, ma dell'esser solo:
      Purché ci serbi al duolo,
      Or d'altro a lei non cal.
      So che pietà fra gli uomini
      Il misero non trova;
      Che lui, fuggendo, a prova
      Schernisce ogni mortal.

      Che ignora il tristo secolo
      Gl'ingegni e le virtudi;
      Che manca ai degni studi
      L'ignuda gloria ancor.
      E voi, pupille tremule,
      Voi, raggio sovrumano,
      So che splendete invano,
      Che in voi non brilla amor.

      Nessuno ignoto ed intimo
      Affetto in voi non brilla:
      Non chiude una favilla
      Quel bianco petto in sé.
      Anzi d'altrui le tenere
      Cure suol porre in gioco;
      E d'un celeste foco
      Disprezzo è la mercè.

      Pur sento in me rivivere
      Gl'inganni aperti e noti;
      E, dè suoi proprii moti
      Si maraviglia il sen.
      Da te, mio cor, quest'ultimo
      Spirto, e l'ardor natio,
      Ogni conforto mio
      Solo da te mi vien.

      Mancano, il sento, all'anima
      Alta, gentile e pura,
      La sorte, la natura,
      Il mondo e la beltà.
      Ma se tu vivi, o misero,
      Se non concedi al fato,
      Non chiamerò spietato
      Chi lo spirar mi dà.
      Giacomo Leopardi
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        A un vincitore nel pallone

        Di gloria il viso e la gioconda voce,
        Garzon bennato, apprendi,
        E quanto al femminile ozio sovrasti
        La sudata virtude. Attendi attendi,
        Magnanimo campion (s'alla veloce
        Piena degli anni il tuo valor contrasti
        La spoglia di tuo nome), attendi e il core
        Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
        Arena e il circo, e te fremendo appella
        Ai fatti illustri il popolar favore;
        Te rigoglioso dell'età novella
        Oggi la patria cara
        Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
        Del barbarico sangue in Maratona
        Non colorò la destra
        Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
        Che stupido mirò l'ardua palestra,
        Né la palma beata e la corona
        D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
        Forse le chiome polverose e i fianchi
        Delle cavalle vincitrici asterse
        Tal che le greche insegne e il greco acciaro
        Guidò dè Medi fuggitivi e stanchi
        Nelle pallide torme; onde sonaro
        Di sconsolato grido
        L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
        Vano dirai quel che disserra e scote
        Della virtù nativa
        Le riposte faville? E che del fioco
        Spirto vital negli egri petti avviva
        Il caduco fervor? Le meste rote
        Da poi che Febo instiga, altro che gioco
        Son l'opre dè mortali? Ed è men vano
        Della menzogna il vero? A noi di lieti
        Inganni e di felici ombre soccorse
        Natura stessa: e là dove l'insano
        Costume ai forti errori esca non porse,
        Negli ozi oscuri e nudi
        Mutò la gente i gloriosi studi.
        Tempo forse verrà ch'alle ruine
        Delle italiche moli
        Insultino gli armenti, e che l'aratro
        Sentano i sette colli; e pochi Soli
        Forse fien volti, e le città latine
        Abiterà la cauta volpe, e l'atro
        Bosco mormorerà fra le alte mura;
        Se la funesta delle patrie cose
        Obblivion dalle perverse menti
        Non isgombrano i fati, e la matura
        Clade non torce dalle abbiette genti
        Il ciel fatto cortese
        Dal rimembrar delle passate imprese.
        Alla patria infelice, o buon garzone,
        Sopravviver ti doglia.
        Chiaro per lei stato saresti allora
        Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
        Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
        Che nullo di tal madre oggi s'onora:
        Ma per te stesso al polo ergi la mente.
        Nostra vita a che val? Solo a spregiarla:
        Beata allor che nè perigli avvolta,
        Se stessa obblia, né delle putri e lente
        Ore il danno misura e il flutto ascolta;
        Beata allor che il piede
        Spinto al varco leteo, più grata riede.
        Giacomo Leopardi
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          All'Italia

          O patria mia, vedo le mura e gli archi
          E le colonne e i simulacri e l'erme
          Torri degli avi nostri,
          Ma la la gloria non vedo,
          Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
          I nostri padri antichi. Or fatta inerme
          Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
          Oimè quante ferite,
          Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
          Formesissima donna!
          Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
          Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
          Che di catene ha carche ambe le braccia,
          Sì che sparte le chiome e senza velo
          Siede in terra negletta e sconsolata,
          Nascondendo la faccia
          Tra le ginocchia, e piange.
          Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
          Le genti a vincer nata
          E nella fausta sorte e nella ria.
          Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
          Mai non potrebbe il pianto
          Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
          Che fosti donna, or sei povera ancella.
          Chi di te parla o scrive,
          Che, rimembrando il tuo passato vanto,
          Non dica: già fu grande, or non è quella?
          Perché, perché? Dov'è la forza antica?
          Dove l'armi e il valore e la costanza?
          Chi ti discinse il brando?
          Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
          0 qual tanta possanza,
          Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
          Come cadesti o quando
          Da tanta altezza in così basso loco?
          Nessun pugna per te? Non ti difende
          Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
          Combatterà, procomberò sol io.
          Dammi, o ciel, che sia foco
          Agl'italici petti il sangue mio.
          Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
          E di carri e di voci e di timballi
          In estranie contrade
          Pugnano i tuoi figliuoli.
          Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
          Un fluttuar di fanti e di cavalli,
          E fumo e polve, e luccicar di spade
          Come tra nebbia lampi.
          Nè ti conforti e i tremebondi lumi
          Piegar non soffri al dubitoso evento?
          A che pugna in quei campi
          L'itata gioventude? 0 numi, o numi
          Pugnan per altra terra itali acciari.
          Oh misero colui che in guerra è spento,
          Non per li patrii lidi e per la pia
          Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
          Per altra gente, e non può dir morendo
          Alma terra natia,
          La vita che mi desti ecco ti rendo.
          Oh venturose e care e benedette
          L'antiche età, che a morte
          Per la patria correan le genti a squadre
          E voi sempre onorate e gloriose,
          0 tessaliche strette,
          Dove la Persia e il fato assai men forte
          Fu di poch'alme franche e generose!
          Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
          E le montagne vostre al passeggere
          Con indistinta voce
          Narrin siccome tutta quella sponda
          Coprir le invitte schiere
          Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
          Allor, vile e feroce,
          Serse per l'Ellesponto si fuggia,
          Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
          E sul colle d'Antela, ove morendo
          Si sottrasse da morte il santo stuolo,
          Simonide salia,
          Guardando l'etra e la marina e il suolo.
          E di lacrime sparso ambe le guance,
          E il petto ansante, e vacillante il piede,
          Toglicasi in man la lira:
          Beatissimi voi,
          Ch'offriste il petto alle nemiche lance
          Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
          Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
          Nell'armi e nè perigli
          Qual tanto amor le giovanette menti,
          Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
          Come si lieta, o figli,
          L'ora estrema vi parve, onde ridenti
          Correste al passo lacrimoso e, duro?
          Parea ch'a danza e non a morte andasse
          Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
          Ma v'attendea lo scuro
          Tartaro, e l'ond'a morta;
          Nè le spose vi foro o i figli accanto
          Quando su l'aspro lito
          Senza baci moriste e senza pianto.
          Ma non senza dè Persi orrida pena
          Ed immortale angoscia.
          Come lion di tori entro una mandra
          Or salta a quello in tergo e sì gli scava
          Con le zanne la schiena,
          Or questo fianco addenta or quella coscia;
          Tal fra le Perse torme infuriava
          L'ira dè greci petti e la virtute.
          Vè cavalli supini e cavalieri;
          Vedi intralciare ai vinti
          La fuga i carri e le tende cadute,
          E correr frà primieri
          Pallido e scapigliato esso tiranno;
          vè come infusi e tintí
          Del barbarico sangue i greci eroi,
          Cagione ai Persi d'infinito affanno,
          A poco a poco vinti dalle piaghe,
          L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
          Beatissimi voi
          Mentre nel mondo si favelli o scriva.
          Prima divelte, in mar precipitando,
          Spente nell'imo strideran le stelle,
          Che la memoria e il vostro
          Amor trascorra o scemi.
          La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
          Verran le madri ai parvoli le belle
          Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
          0 benedetti, al suolo,
          E bacio questi sassi e queste zolle,
          Che fien lodate e chiare eternamente
          Dall'uno all'altro polo.
          Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
          Fosse del sangue mio quest'alma terra.
          Che se il fato è diverso, e non consente
          Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
          Chiuda prostrato in guerra,
          Così la vereconda
          Fama del vostro vate appo i futuri
          Possa, volendo i numi,
          Tanto durar quanto la, vostra duri.
          Giacomo Leopardi
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Le ricordanze

            Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
            Tornare ancor per uso a contemplarvi
            Sul paterno giardino scintillanti,
            E ragionar con voi dalle finestre
            Di questo albergo ove abitai fanciullo,
            E delle gioie mie vidi la fine.
            Quante immagini un tempo, e quante fole
            Creommi nel pensier l'aspetto vostro
            E delle luci a voi compagne! Allora
            Che, tacito, seduto in verde zolla,
            Delle sere io solea passar gran parte
            Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
            Della rana rimota alla campagna!
            E la lucciola errava appo le siepi
            E in su l'aiuole, susurrando al vento
            I viali odorati, ed i cipressi
            Là nella selva; e sotto al patrio tetto
            Sonavan voci alterne, e le tranquille
            Opre dè servi. E che pensieri immensi,
            Che dolci sogni mi spirò la vista
            Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
            Che di qua scopro, e che varcare un giorno
            Io mi pensava, arcani mondi, arcana
            Felicità fingendo al viver mio!
            Ignaro del mio fato, e quante volte
            Questa mia vita dolorosa e nuda
            Volentier con la morte avrei cangiato.
            Né mi diceva il cor che l'età verde
            Sarei dannato a consumare in questo
            Natio borgo selvaggio, intra una gente
            Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
            Argomento di riso e di trastullo,
            Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
            Per invidia non già, che non mi tiene
            Maggior di sé, ma perché tale estima
            Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
            A persona giammai non ne fo segno.
            Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
            Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
            Tra lo stuol dè malevoli divengo:
            Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
            E sprezzator degli uomini mi rendo,
            Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
            Il caro tempo giovanil; più caro
            Che la fama e l'allor, più che la pura
            Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
            Senza un diletto, inutilmente, in questo
            Soggiorno disumano, intra gli affanni,
            O dell'arida vita unico fiore.
            Viene il vento recando il suon dell'ora
            Dalla torre del borgo. Era conforto
            Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
            Quando fanciullo, nella buia stanza,
            Per assidui terrori io vigilava,
            Sospirando il mattin. Qui non è cosa
            Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
            Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
            Dolce per sé; ma con dolor sottentra
            Il pensier del presente, un van desio
            Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
            Quella loggia colà, volta agli estremi
            Raggi del dì; queste dipinte mura,
            Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
            Su romita campagna, agli ozi miei
            Porser mille diletti allor che al fianco
            M'era, parlando, il mio possente errore
            Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
            Al chiaror delle nevi, intorno a queste
            Ampie finestre sibilando il vento,
            Rimbombaro i sollazzi e le festose
            Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
            Mistero delle cose a noi si mostra
            Pien di dolcezza; indelibata, intera
            Il garzoncel, come inesperto amante,
            La sua vita ingannevole vagheggia,
            E celeste beltà fingendo ammira.
            O speranze, speranze; ameni inganni
            Della mia prima età! Sempre, parlando,
            Ritorno a voi; che per andar di tempo,
            Per variar d'affetti e di pensieri,
            Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
            Son la gloria e l'onor; diletti e beni
            Mero desio; non ha la vita un frutto,
            Inutile miseria. E sebben vòti
            Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
            Il mio stato mortal, poco mi toglie
            La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
            A voi ripenso, o mie speranze antiche,
            Ed a quel caro immaginar mio primo;
            Indi riguardo il viver mio sì vile
            E sì dolente, e che la morte è quello
            Che di cotanta speme oggi m'avanza;
            Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
            Consolarmi non so del mio destino.
            E quando pur questa invocata morte
            Sarammi allato, e sarà giunto il fine
            Della sventura mia; quando la terra
            Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
            Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
            Risovverrammi; e quell'imago ancora
            Sospirar mi farà, farammi acerbo
            L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
            Del dì fatal tempererà d'affanno.
            E già nel primo giovanil tumulto
            Di contenti, d'angosce e di desio,
            Morte chiamai più volte, e lungamente
            Mi sedetti colà su la fontana
            Pensoso di cessar dentro quell'acque
            La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
            Malor, condotto della vita in forse,
            Piansi la bella giovanezza, e il fiore
            Dè miei poveri dì, che sì per tempo
            Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
            Sul conscio letto, dolorosamente
            Alla fioca lucerna poetando,
            Lamentai cò silenzi e con la notte
            Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
            In sul languir cantai funereo canto.
            Chi rimembrar vi può senza sospiri,
            O primo entrar di giovinezza, o giorni
            Vezzosi, inenarrabili, allor quando
            Al rapito mortal primieramente
            Sorridon le donzelle; a gara intorno
            Ogni cosa sorride; invidia tace,
            Non desta ancora ovver benigna; e quasi
            (Inusitata maraviglia! ) il mondo
            La destra soccorrevole gli porge,
            Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
            Suo venir nella vita, ed inchinando
            Mostra che per signor l'accolga e chiami?
            Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
            Son dileguati. E qual mortale ignaro
            Di sventura esser può, se a lui già scorsa
            Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
            Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
            O Nerina! E di te forse non odo
            Questi luoghi parlar? Caduta forse
            Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
            Che qui sola di te la ricordanza
            Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
            Questa Terra natal: quella finestra,
            Ond'eri usata favellarmi, ed onde
            Mesto riluce delle stelle il raggio,
            È deserta. Ove sei, che più non odo
            La tua voce sonar, siccome un giorno,
            Quando soleva ogni lontano accento
            Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
            Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
            Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
            Il passar per la terra oggi è sortito,
            E l'abitar questi odorati colli.
            Ma rapida passasti; e come un sogno
            Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
            La gioia ti splendea, splendea negli occhi
            Quel confidente immaginar, quel lume
            Di gioventù, quando spegneali il fato,
            E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
            L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
            Se a radunanze io movo, infra me stesso
            Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
            Tu non ti acconci più, tu più non movi.
            Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
            Van gli amanti recando alle fanciulle,
            Dico: Nerina mia, per te non torna
            Primavera giammai, non torna amore.
            Ogni giorno sereno, ogni fiorita
            Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
            Dico: Nerina or più non gode; i campi,
            L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
            Sospiro mio: passasti: e fia compagna
            D'ogni mio vago immaginar, di tutti
            I miei teneri sensi, i tristi e cari
            Moti del cor, la rimembranza acerba.
            Giacomo Leopardi
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              La sera del dì di festa

              Dolce e chiara è la notte e senza vento,
              E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
              Posa la luna, e di lontan rivela
              Serena ogni montagna. O donna mia,
              Già tace ogni sentiero, e pei balconi
              Rara traluce la notturna lampa:
              Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
              Nelle tue chete stanze; e non ti morde
              Cura nessuna; e già non sai né pensi
              Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
              Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
              Appare in vista, a salutar m'affaccio,
              E l'antica natura onnipossente,
              Che mi fece all'affanno. A te la speme
              Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
              Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
              Questo dì fu solenne: or dà trastulli
              Prendi riposo; e forse ti rimembra
              In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
              Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
              Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
              Quanto a viver mi resti, e qui per terra
              Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
              In così verde etate! Ahi, per la via
              Odo non lunge il solitario canto
              Dell'artigian, che riede a tarda notte,
              Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
              E fieramente mi si stringe il core,
              A pensar come tutto al mondo passa,
              E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
              Il dì festivo, ed al festivo il giorno
              Volgar succede, e se ne porta il tempo
              Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
              Di què popoli antichi? Or dov'è il grido
              Dè nostri avi famosi, e il grande impero
              Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
              Che n'andò per la terra e l'oceano?
              Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
              Il mondo, e più di lor non si ragiona.
              Nella mia prima età, quando s'aspetta
              Bramosamente il dì festivo, or poscia
              Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
              Premea le piume; ed alla tarda notte
              Un canto che s'udia per li sentieri
              Lontanando morire a poco a poco,
              Già similmente mi stringeva il core.
              Giacomo Leopardi
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