Le migliori poesie di Giacomo Leopardi

Poeta, filosofo, scrittore, filologo e glottologo, nato martedì 19 giugno 1798 a Recanati (Italia), morto mercoledì 14 giugno 1837 a Napoli (Italia)
Questo autore lo trovi anche in Frasi & Aforismi.

Scritta da: Silvana Stremiz

La ginestra

Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Giacomo Leopardi
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Il sabato del villaggio

    La donzelletta vien dalla campagna,
    In sul calar del sole,
    Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
    Un mazzolin di rose e di viole,
    Onde, siccome suole,
    Ornare ella si appresta
    Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
    Siede con le vicine
    Su la scala a filar la vecchierella,
    Incontro là dove si perde il giorno;
    E novellando vien del suo buon tempo,
    Quando ai dì della festa ella si ornava,
    Ed ancor sana e snella
    Solea danzar la sera intra di quei
    Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
    Già tutta l'aria imbruna,
    Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
    Giù dà colli e dà tetti,
    Al biancheggiar della recente luna.
    Or la squilla dà segno
    Della festa che viene;
    Ed a quel suon diresti
    Che il cor si riconforta.
    I fanciulli gridando
    Su la piazzuola in frotta,
    E qua e là saltando,
    Fanno un lieto romore:
    E intanto riede alla sua parca mensa,
    Fischiando, il zappatore,
    E seco pensa al dì del suo riposo.
    Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
    E tutto l'altro tace,
    Odi il martel picchiare, odi la sega
    Del legnaiuol, che veglia
    Nella chiusa bottega alla lucerna,
    E s'affretta, e s'adopra
    Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
    Questo di sette è il più gradito giorno,
    Pien di speme e di gioia:
    Diman tristezza e noia
    Recheran l'ore, ed al travaglio usato
    Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
    Garzoncello scherzoso,
    Cotesta età fiorita
    È come un giorno d'allegrezza pieno,
    Giorno chiaro, sereno,
    Che precorre alla festa di tua vita.
    Godi, fanciullo mio; stato soave,
    Stagion lieta è cotesta.
    Altro dirti non vò; ma la tua festa
    Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
    Giacomo Leopardi
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      Coro dei morti nello studio di Federico Ruysch

      Sola nel mondo eterna, a cui si volve
      Ogni creata cosa,
      In te, morte, si posa
      Nostra ignuda natura;
      Lieta no, ma sicura
      Dall'antico dolor. Profonda notte
      Nella confusa mente
      Il pensier grave oscura;
      Alla speme, al desio, l'arido spirto
      Lena mancar si sente:
      Così d'affanno e di temenza è sciolto,
      E l'età vote e lente
      Senza tedio consuma.
      Vivemmo: e qual di paurosa larva,
      E di sudato sogno,
      A lattante fanciullo erra nell'alma
      Confusa ricordanza:
      Tal memoria n'avanza
      Del viver nostro: ma da tema è lunge
      Il rimembrar. Che fummo?
      Che fu quel punto acerbo
      Che di vita ebbe nome?
      Cosa arcana e stupenda
      Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
      Qual dè vivi al pensiero
      L'ignota morte appar. Come da morte
      Vivendo rifuggia, così rifugge
      Dalla fiamma vitale
      Nostra ignuda natura;
      Lieta no ma sicura,
      Però ch'esser beato
      Nega ai mortali e nega à morti il fato.
      Giacomo Leopardi
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        L'ultimo canto di Saffo

        Placida notte, e verecondo raggio
        Della cadente luna; e tu che spunti
        Fra la tacita selva in su la rupe,
        Nunzio del giorno; oh dilettose e care
        Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
        Sembianze agli occhi miei; già non arride
        Spettacol molle ai disperati affetti.
        Noi l'insueto allor gaudio ravviva
        Quando per l'etra liquido si volve
        E per li campi trepidanti il flutto
        Polveroso dè Noti, e quando il carro,
        Grave carro di Giove a noi sul capo,
        Tonando, il tenebroso aere divide.
        Noi per le balze e le profonde valli
        Natar giova trà nembi, e noi la vasta
        Fuga dè greggi sbigottiti, o d'alto
        Fiume alla dubbia sponda
        Il suono e la vittrice ira dell'onda.
        Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
        Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
        Infinita beltà parte nessuna
        Alla misera Saffo i numi e l'empia
        Sorte non fenno. À tuoi superbi regni
        Vile, o natura, e grave ospite addetta,
        E dispregiata amante, alle vezzose
        Tue forme il core e le pupille invano
        Supplichevole intendo. A me non ride
        L'aprico margo, e dall'eterea porta
        Il mattutino albor; me non il canto
        Dè colorati augelli, e non dè faggi
        Il murmure saluta: e dove all'ombra
        Degl'inchinati salici dispiega
        Candido rivo il puro seno, al mio
        Lubrico piè le flessuose linfe
        Disdegnando sottragge,
        E preme in fuga l'odorate spiagge.
        Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
        Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
        Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
        In che peccai bambina, allor che ignara
        Di misfatto è la vita, onde poi scemo
        Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
        Dell'indomita Parca si volvesse
        Il ferrigno mio stame? Incaute voci
        Spande il tuo labbro: i destinati eventi
        Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
        Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
        Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
        Dè celesti si posa. Oh cure, oh speme
        Dè più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
        Alle amene sembianze eterno regno
        Diè nelle genti; e per virili imprese,
        Per dotta lira o canto,
        Virtù non luce in disadorno ammanto.
        Morremo. Il velo indegno a terra sparto
        Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
        E il crudo fallo emenderà del cieco
        Dispensator dè casi. E tu cui lungo
        Amore indarno, e lunga fede, e vano
        D'implacato desio furor mi strinse,
        Vivi felice, se felice in terra
        Visse nato mortal. Me non asperse
        Del soave licor del doglio avaro
        Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
        Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
        Giorno di nostra età primo s'invola.
        Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
        Della gelida morte. Ecco di tante
        Sperate palme e dilettosi errori,
        Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
        Han la tenaria Diva,
        E l'atra notte, e la silente riva.
        Giacomo Leopardi
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          La sera del dì di festa

          Dolce e chiara è la notte e senza vento,
          E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
          Posa la luna, e di lontan rivela
          Serena ogni montagna. O donna mia,
          Già tace ogni sentiero, e pei balconi
          Rara traluce la notturna lampa:
          Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
          Nelle tue chete stanze; e non ti morde
          Cura nessuna; e già non sai né pensi
          Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
          Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
          Appare in vista, a salutar m'affaccio,
          E l'antica natura onnipossente,
          Che mi fece all'affanno. A te la speme
          Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
          Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
          Questo dì fu solenne: or dà trastulli
          Prendi riposo; e forse ti rimembra
          In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
          Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
          Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
          Quanto a viver mi resti, e qui per terra
          Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
          In così verde etate! Ahi, per la via
          Odo non lunge il solitario canto
          Dell'artigian, che riede a tarda notte,
          Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
          E fieramente mi si stringe il core,
          A pensar come tutto al mondo passa,
          E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
          Il dì festivo, ed al festivo il giorno
          Volgar succede, e se ne porta il tempo
          Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
          Di què popoli antichi? Or dov'è il grido
          Dè nostri avi famosi, e il grande impero
          Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
          Che n'andò per la terra e l'oceano?
          Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
          Il mondo, e più di lor non si ragiona.
          Nella mia prima età, quando s'aspetta
          Bramosamente il dì festivo, or poscia
          Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
          Premea le piume; ed alla tarda notte
          Un canto che s'udia per li sentieri
          Lontanando morire a poco a poco,
          Già similmente mi stringeva il core.
          Giacomo Leopardi
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            Scritta da: Violina Sirola

            Bruto minore

            Poi che divelta, nella tracia polve
            Giacque ruina immensa
            L'italica virtute, onde alle valli
            D'Esperia verde, e al tiberino lido,
            Il calpestio dè barbari cavalli
            Prepara il fato, e dalle selve ignude
            Cui l'Orsa algida preme,
            A spezzar le romane inclite mura
            Chiama i gotici brandi;
            Sudato, e molle di fraterno sangue,
            Bruto per l'atra notte in erma sede,
            Fermo già di morir, gl'inesorandi
            Numi e l'averno accusa,
            E di feroci note
            Invan la sonnolenta aura percote.

            Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
            Dell'inquiete larve
            Son le tue scole, e ti si volge a tergo
            Il pentimento. A voi, marmorei numi,
            (Se numi avete in Flegetonte albergo
            O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
            È la prole infelice
            A cui templi chiedeste, e frodolenta
            Legge al mortale insulta.
            Dunque tanto i celesti odii commove
            La terrena pietà? dunque degli empi
            Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
            Per l'aere il nembo, e quando
            Il tuon rapido spingi,
            Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?

            Preme il destino invitto e la ferrata
            Necessità gl'infermi
            Schiavi di morte: e se a cessar non vale
            Gli oltraggi lor, dè necessarii danni
            Si consola il plebeo. Men duro è il male
            Che riparo non ha? dolor non sente
            Chi di speranza è nudo?
            Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
            Teco il prode guerreggia,
            Di cedere inesperto; e la tiranna
            Tua destra, allor che vincitrice il grava,
            Indomito scrollando si pompeggia,
            Quando nell'alto lato
            L'amaro ferro intride,
            E maligno alle nere ombre sorride.

            Spiace agli Dei chi violento irrompe
            Nel Tartaro. Non fora
            Tanto valor né molli eterni petti.
            Forse i travagli nostri, e forse il cielo
            I casi acerbi e gl'infelici affetti
            Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
            Non fra sciagure e colpe,
            Ma libera né boschi e pura etade
            Natura a noi prescrisse,
            Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
            Sparse i regni beati empio costume,
            E il viver macro ad altre leggi addisse;
            Quando gl'infausti giorni
            Virile alma ricusa,
            Riede natura, e il non suo dardo accusa?

            Di colpa ignare e dè lor proprii danni
            Le fortunate belve
            Serena adduce al non previsto passo
            La tarda età. Ma se spezzar la fronte
            Né rudi tronchi, o da montano sasso
            Dare al vento precipiti le membra,
            Lor suadesse affanno;
            Al misero desio nulla contesa
            Legge arcana farebbe
            O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
            Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
            Figli di Prometeo, la vita increbbe;
            A voi le morte ripe,
            Se il fato ignavo pende,
            Soli, o miseri, a voi Giove contende.

            E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
            Candida luna, sorgi,
            E l'inquieta notte e la funesta
            All'ausonio valor campagna esplori.
            Cognati petti il vincitor calpesta,
            Fremono i poggi, dalle somme vette
            Roma antica ruina;
            Tu sì placida sei? Tu la nascente
            Lavinia prole, e gli anni
            Lieti vedesti, e i memorandi allori;
            E tu su l'alpe l'immutato raggio
            Tacita verserai quando né danni
            Del servo italo nome,
            Sotto barbaro piede
            Rintronerà quella solinga sede.

            Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
            E la fera e l'augello,
            Del consueto obblio gravido il petto,
            L'alta ruina ignora e le mutate
            Sorti del mondo: e come prima il tetto
            Rosseggerà del villanello industre,
            Al mattutino canto
            Quel desterà le valli, e per le balze
            Quella l'inferma plebe
            Agiterà delle minori belve.
            Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
            Siam delle cose; e non le tinte glebe,
            Non gli ululati spechi
            Turbò nostra sciagura,
            Né scolorò le stelle umana cura.

            Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
            Regi, o la terra indegna,
            E non la notte moribondo appello;
            Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
            Conscia futura età. Sdegnoso avello
            Placàr singulti, ornàr parole e doni
            Di vil caterva? In peggio
            Precipitano i tempi; e mal s'affida
            A putridi nepoti
            L'onor d'egregie menti e la suprema
            Dè miseri vendetta. A me d'intorno
            Le penne il bruno augello avido roti;
            Prema la fera, e il nembo
            Tratti l'ignota spoglia;
            E l'aura il nome e la memoria accoglia.
            Giacomo Leopardi
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              A un vincitore nel pallone

              Di gloria il viso e la gioconda voce,
              Garzon bennato, apprendi,
              E quanto al femminile ozio sovrasti
              La sudata virtude. Attendi attendi,
              Magnanimo campion (s'alla veloce
              Piena degli anni il tuo valor contrasti
              La spoglia di tuo nome), attendi e il core
              Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
              Arena e il circo, e te fremendo appella
              Ai fatti illustri il popolar favore;
              Te rigoglioso dell'età novella
              Oggi la patria cara
              Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
              Del barbarico sangue in Maratona
              Non colorò la destra
              Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
              Che stupido mirò l'ardua palestra,
              Né la palma beata e la corona
              D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
              Forse le chiome polverose e i fianchi
              Delle cavalle vincitrici asterse
              Tal che le greche insegne e il greco acciaro
              Guidò dè Medi fuggitivi e stanchi
              Nelle pallide torme; onde sonaro
              Di sconsolato grido
              L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
              Vano dirai quel che disserra e scote
              Della virtù nativa
              Le riposte faville? E che del fioco
              Spirto vital negli egri petti avviva
              Il caduco fervor? Le meste rote
              Da poi che Febo instiga, altro che gioco
              Son l'opre dè mortali? Ed è men vano
              Della menzogna il vero? A noi di lieti
              Inganni e di felici ombre soccorse
              Natura stessa: e là dove l'insano
              Costume ai forti errori esca non porse,
              Negli ozi oscuri e nudi
              Mutò la gente i gloriosi studi.
              Tempo forse verrà ch'alle ruine
              Delle italiche moli
              Insultino gli armenti, e che l'aratro
              Sentano i sette colli; e pochi Soli
              Forse fien volti, e le città latine
              Abiterà la cauta volpe, e l'atro
              Bosco mormorerà fra le alte mura;
              Se la funesta delle patrie cose
              Obblivion dalle perverse menti
              Non isgombrano i fati, e la matura
              Clade non torce dalle abbiette genti
              Il ciel fatto cortese
              Dal rimembrar delle passate imprese.
              Alla patria infelice, o buon garzone,
              Sopravviver ti doglia.
              Chiaro per lei stato saresti allora
              Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
              Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
              Che nullo di tal madre oggi s'onora:
              Ma per te stesso al polo ergi la mente.
              Nostra vita a che val? Solo a spregiarla:
              Beata allor che nè perigli avvolta,
              Se stessa obblia, né delle putri e lente
              Ore il danno misura e il flutto ascolta;
              Beata allor che il piede
              Spinto al varco leteo, più grata riede.
              Giacomo Leopardi
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                All'Italia

                O patria mia, vedo le mura e gli archi
                E le colonne e i simulacri e l'erme
                Torri degli avi nostri,
                Ma la la gloria non vedo,
                Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
                I nostri padri antichi. Or fatta inerme
                Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
                Oimè quante ferite,
                Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
                Formesissima donna!
                Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
                Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
                Che di catene ha carche ambe le braccia,
                Sì che sparte le chiome e senza velo
                Siede in terra negletta e sconsolata,
                Nascondendo la faccia
                Tra le ginocchia, e piange.
                Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
                Le genti a vincer nata
                E nella fausta sorte e nella ria.
                Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
                Mai non potrebbe il pianto
                Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
                Che fosti donna, or sei povera ancella.
                Chi di te parla o scrive,
                Che, rimembrando il tuo passato vanto,
                Non dica: già fu grande, or non è quella?
                Perché, perché? Dov'è la forza antica?
                Dove l'armi e il valore e la costanza?
                Chi ti discinse il brando?
                Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
                0 qual tanta possanza,
                Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
                Come cadesti o quando
                Da tanta altezza in così basso loco?
                Nessun pugna per te? Non ti difende
                Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
                Combatterà, procomberò sol io.
                Dammi, o ciel, che sia foco
                Agl'italici petti il sangue mio.
                Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
                E di carri e di voci e di timballi
                In estranie contrade
                Pugnano i tuoi figliuoli.
                Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
                Un fluttuar di fanti e di cavalli,
                E fumo e polve, e luccicar di spade
                Come tra nebbia lampi.
                Nè ti conforti e i tremebondi lumi
                Piegar non soffri al dubitoso evento?
                A che pugna in quei campi
                L'itata gioventude? 0 numi, o numi
                Pugnan per altra terra itali acciari.
                Oh misero colui che in guerra è spento,
                Non per li patrii lidi e per la pia
                Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
                Per altra gente, e non può dir morendo
                Alma terra natia,
                La vita che mi desti ecco ti rendo.
                Oh venturose e care e benedette
                L'antiche età, che a morte
                Per la patria correan le genti a squadre
                E voi sempre onorate e gloriose,
                0 tessaliche strette,
                Dove la Persia e il fato assai men forte
                Fu di poch'alme franche e generose!
                Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
                E le montagne vostre al passeggere
                Con indistinta voce
                Narrin siccome tutta quella sponda
                Coprir le invitte schiere
                Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
                Allor, vile e feroce,
                Serse per l'Ellesponto si fuggia,
                Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
                E sul colle d'Antela, ove morendo
                Si sottrasse da morte il santo stuolo,
                Simonide salia,
                Guardando l'etra e la marina e il suolo.
                E di lacrime sparso ambe le guance,
                E il petto ansante, e vacillante il piede,
                Toglicasi in man la lira:
                Beatissimi voi,
                Ch'offriste il petto alle nemiche lance
                Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
                Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
                Nell'armi e nè perigli
                Qual tanto amor le giovanette menti,
                Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
                Come si lieta, o figli,
                L'ora estrema vi parve, onde ridenti
                Correste al passo lacrimoso e, duro?
                Parea ch'a danza e non a morte andasse
                Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
                Ma v'attendea lo scuro
                Tartaro, e l'ond'a morta;
                Nè le spose vi foro o i figli accanto
                Quando su l'aspro lito
                Senza baci moriste e senza pianto.
                Ma non senza dè Persi orrida pena
                Ed immortale angoscia.
                Come lion di tori entro una mandra
                Or salta a quello in tergo e sì gli scava
                Con le zanne la schiena,
                Or questo fianco addenta or quella coscia;
                Tal fra le Perse torme infuriava
                L'ira dè greci petti e la virtute.
                Vè cavalli supini e cavalieri;
                Vedi intralciare ai vinti
                La fuga i carri e le tende cadute,
                E correr frà primieri
                Pallido e scapigliato esso tiranno;
                vè come infusi e tintí
                Del barbarico sangue i greci eroi,
                Cagione ai Persi d'infinito affanno,
                A poco a poco vinti dalle piaghe,
                L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
                Beatissimi voi
                Mentre nel mondo si favelli o scriva.
                Prima divelte, in mar precipitando,
                Spente nell'imo strideran le stelle,
                Che la memoria e il vostro
                Amor trascorra o scemi.
                La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
                Verran le madri ai parvoli le belle
                Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
                0 benedetti, al suolo,
                E bacio questi sassi e queste zolle,
                Che fien lodate e chiare eternamente
                Dall'uno all'altro polo.
                Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
                Fosse del sangue mio quest'alma terra.
                Che se il fato è diverso, e non consente
                Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
                Chiuda prostrato in guerra,
                Così la vereconda
                Fama del vostro vate appo i futuri
                Possa, volendo i numi,
                Tanto durar quanto la, vostra duri.
                Giacomo Leopardi
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