Le migliori poesie di Giacomo Leopardi

Poeta, filosofo, scrittore, filologo e glottologo, nato martedì 19 giugno 1798 a Recanati (Italia), morto mercoledì 14 giugno 1837 a Napoli (Italia)
Questo autore lo trovi anche in Frasi & Aforismi.

Scritta da: Silvana Stremiz

L'Infinito

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
Giacomo Leopardi
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    Scritta da: Thanaty
    Or poserai per sempre,
    stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
    Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
    in noi di cari inganni,
    non che la speme, il desiderio è spento.
    Posa per sempre. Assai
    palpitasti. Non val cosa nessuna
    i moti tuoi, né di sospiri è degna
    la terra. Amaro e noia
    la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
    T'acqueta omai. Dispera
    l'ultima volta. Al gener nostro il fato
    non donò che il morire. Omai disprezza
    te, la natura, il brutto
    poter che, ascoso, a comun danno impera,
    E l'infinita vanità del tutto.
    Giacomo Leopardi
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      La quiete dopo la tempesta

      Passata è la tempesta:
      Odo augelli far festa, e la gallina,
      Tornata in su la via,
      Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
      Rompe là da ponente, alla montagna;
      Sgombrasi la campagna,
      E chiaro nella valle il fiume appare.
      Ogni cor si rallegra, in ogni lato
      Risorge il romorio
      Torna il lavoro usato.
      L'artigiano a mirar l'umido cielo,
      Con l'opra in man, cantando,
      Fassi in su l'uscio; a prova
      Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
      Della novella piova;
      E l'erbaiuol rinnova
      Di sentiero in sentiero
      Il grido giornaliero.
      Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
      Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
      Apre terrazzi e logge la famiglia:
      E, dalla via corrente, odi lontano
      Tintinnio di sonagli; il carro stride
      Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
      Si rallegra ogni core.
      Sì dolce, sì gradita
      Quand'è, com'or, la vita?
      Quando con tanto amore
      L'uomo à suoi studi intende?
      O torna all'opre? O cosa nova imprende?
      Quando dè mali suoi men si ricorda?
      Piacer figlio d'affanno;
      Gioia vana, ch'è frutto
      Del passato timore, onde si scosse
      E paventò la morte
      Chi la vita abborria;
      Onde in lungo tormento,
      Fredde, tacite, smorte,
      Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
      Mossi alle nostre offese
      Folgori, nembi e vento.
      O natura cortese,
      Son questi i doni tuoi,
      Questi i diletti sono
      Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
      È diletto fra noi.
      Pene tu spargi a larga mano; il duolo
      Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
      Che per mostro e miracolo talvolta
      Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
      Prole cara agli eterni! Assai felice
      Se respirar ti lice
      D'alcun dolor: beata
      Se te d'ogni dolor morte risana.
      Giacomo Leopardi
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Il Risorgimento

        Credei ch'al tutto fossero
        In me, sul fior degli anni,
        Mancati i dolci affanni
        Della mia prima età:
        I dolci affanni, i teneri
        Moti del cor profondo,
        Qualunque cosa al mondo
        Grato il sentir ci fa.

        Quante querele e lacrime
        Sparsi nel novo stato,
        Quando al mio cor gelato
        Prima il dolor mancò!
        Mancàr gli usati palpiti,
        L'amor mi venne meno,
        E irrigidito il seno
        Di sospirar cessò!

        Piansi spogliata, esanime
        Fatta per me la vita
        La terra inaridita,
        Chiusa in eterno gel;
        Deserto il dì; la tacita
        Notte più sola e bruna;
        Spenta per me la luna,
        Spente le stelle in ciel.

        Pur di quel pianto origine
        Era l'antico affetto:
        Nell'intimo del petto
        Ancor viveva il cor.
        Chiedea l'usate immagini
        La stanca fantasia;
        E la tristezza mia
        Era dolore ancor.

        Fra poco in me quell'ultimo
        Dolore anco fu spento,
        E di più far lamento
        Valor non mi restò.
        Giacqui: insensato, attonito,
        Non dimandai conforto:
        Quasi perduto e morto,
        Il cor s'abbandonò.

        Qual fui! Quanto dissimile
        Da quel che tanto ardore,
        Che sì beato errore
        Nutrii nell'alma un dì!
        La rondinella vigile,
        Alle finestre intorno
        Cantando al novo giorno,
        Il cor non mi ferì:

        Non all'autunno pallido
        In solitaria villa,
        La vespertina squilla,
        Il fuggitivo Sol.
        Invan brillare il vespero
        Vidi per muto calle,
        Invan sonò la valle
        Del flebile usignol.

        E voi, pupille tenere,
        Sguardi furtivi, erranti,
        Voi dè gentili amanti
        Primo, immortale amor,
        Ed alla mano offertami
        Candida ignuda mano,
        Foste voi pure invano
        Al duro mio sopor.

        D'ogni dolcezza vedovo,
        Tristo; ma non turbato,
        Ma placido il mio stato,
        Il volto era seren.
        Desiderato il termine
        Avrei del viver mio;
        Ma spento era il desio
        Nello spossato sen.

        Qual dell'età decrepita
        L'avanzo ignudo e vile,
        Io conducea l'aprile
        Degli anni miei così:
        Così quegl'ineffabili
        Giorni, o mio cor, traevi,
        Che sì fugaci e brevi
        Il cielo a noi sortì.

        Chi dalla grave, immemore
        Quiete or mi ridesta?
        Che virtù nova è questa,
        Questa che sento in me?
        Moti soavi, immagini,
        Palpiti, error beato,
        Per sempre a voi negato
        Questo mio cor non è?

        Siete pur voi quell'unica
        Luce dè giorni miei?
        Gli affetti ch'io perdei
        Nella novella età?
        Se al ciel, s'ai verdi margini,
        Ovunque il guardo mira,
        Tutto un dolor mi spira,
        Tutto un piacer mi dà.

        Meco ritorna a vivere
        La piaggia, il bosco, il monte;
        Parla al mio core il fonte,
        Meco favella il mar.
        Chi mi ridona il piangere
        Dopo cotanto obblio?
        E come al guardo mio
        Cangiato il mondo appar?

        Forse la speme, o povero
        Mio cor, ti volse un riso?
        Ahi della speme il viso
        Io non vedrò mai più.
        Proprii mi diede i palpiti,
        Natura, e i dolci inganni.
        Sopiro in me gli affanni
        L'ingenita virtù;

        Non l'annullàr: non vinsela
        Il fato e la sventura;
        Non con la vista impura
        L'infausta verità.
        Dalle mie vaghe immagini
        So ben ch'ella discorda:
        So che natura è sorda,
        Che miserar non sa.

        Che non del ben sollecita
        Fu, ma dell'esser solo:
        Purché ci serbi al duolo,
        Or d'altro a lei non cal.
        So che pietà fra gli uomini
        Il misero non trova;
        Che lui, fuggendo, a prova
        Schernisce ogni mortal.

        Che ignora il tristo secolo
        Gl'ingegni e le virtudi;
        Che manca ai degni studi
        L'ignuda gloria ancor.
        E voi, pupille tremule,
        Voi, raggio sovrumano,
        So che splendete invano,
        Che in voi non brilla amor.

        Nessuno ignoto ed intimo
        Affetto in voi non brilla:
        Non chiude una favilla
        Quel bianco petto in sé.
        Anzi d'altrui le tenere
        Cure suol porre in gioco;
        E d'un celeste foco
        Disprezzo è la mercè.

        Pur sento in me rivivere
        Gl'inganni aperti e noti;
        E, dè suoi proprii moti
        Si maraviglia il sen.
        Da te, mio cor, quest'ultimo
        Spirto, e l'ardor natio,
        Ogni conforto mio
        Solo da te mi vien.

        Mancano, il sento, all'anima
        Alta, gentile e pura,
        La sorte, la natura,
        Il mondo e la beltà.
        Ma se tu vivi, o misero,
        Se non concedi al fato,
        Non chiamerò spietato
        Chi lo spirar mi dà.
        Giacomo Leopardi
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

          Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
          Silenziosa luna?
          Sorgi la sera, e vai,
          Contemplando i deserti; indi ti posi.
          Ancor non sei tu paga
          Di riandare i sempiterni calli?
          Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
          Di mirar queste valli?
          Somiglia alla tua vita
          La vita del pastore.
          Sorge in sul primo albore;
          Move la greggia oltre pel campo, e vede
          Greggi, fontane ed erbe;
          Poi stanco si riposa in su la sera:
          Altro mai non ispera.
          Dimmi, o luna: a che vale
          Al pastor la sua vita,
          La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
          Questo vagar mio breve,
          Il tuo corso immortale?
          Vecchierel bianco, infermo,
          Mezzo vestito e scalzo,
          Con gravissimo fascio in su le spalle,
          Per montagna e per valle,
          Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
          Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
          L'ora, e quando poi gela,
          Corre via, corre, anela,
          Varca torrenti e stagni,
          Cade, risorge, e più e più s'affretta,
          Senza posa o ristoro,
          Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
          Colà dove la via
          E dove il tanto affaticar fu volto:
          Abisso orrido, immenso,
          Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
          Vergine luna, tale
          È la vita mortale.
          Nasce l'uomo a fatica,
          Ed è rischio di morte il nascimento.
          Prova pena e tormento
          Per prima cosa; e in sul principio stesso
          La madre e il genitore
          Il prende a consolar dell'esser nato.
          Poi che crescendo viene,
          L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
          Con atti e con parole
          Studiasi fargli core,
          E consolarlo dell'umano stato:
          Altro ufficio più grato
          Non si fa da parenti alla lor prole.
          Ma perché dare al sole,
          Perché reggere in vita
          Chi poi di quella consolar convenga?
          Se la vita è sventura
          Perché da noi si dura?
          Intatta luna, tale
          È lo stato mortale.
          Ma tu mortal non sei,
          E forse del mio dir poco ti cale.
          Pur tu, solinga, eterna peregrina,
          Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
          Questo viver terreno,
          Il patir nostro, il sospirar, che sia;
          Che sia questo morir, questo supremo
          Scolorar del sembiante,
          E perir dalla terra, e venir meno
          Ad ogni usata, amante compagnia.
          E tu certo comprendi
          Il perché delle cose, e vedi il frutto
          Del mattin, della sera,
          Del tacito, infinito andar del tempo.
          Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
          Rida la primavera,
          A chi giovi l'ardore, e che procacci
          Il verno cò suoi ghiacci.
          Mille cose sai tu, mille discopri,
          Che son celate al semplice pastore.
          Spesso quand'io ti miro
          Star così muta in sul deserto piano,
          Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
          Ovver con la mia greggia
          Seguirmi viaggiando a mano a mano;
          E quando miro in cielo arder le stelle;
          Dico fra me pensando:
          A che tante facelle?
          Che fa l'aria infinita, e quel profondo
          Infinito seren? Che vuol dir questa
          Solitudine immensa? Ed io che sono?
          Così meco ragiono: e della stanza
          Smisurata e superba,
          E dell'innumerabile famiglia;
          Poi di tanto adoprar, di tanti moti
          D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
          Girando senza posa,
          Per tornar sempre là donde son mosse;
          Uso alcuno, alcun frutto
          Indovinar non so. Ma tu per certo,
          Giovinetta immortal, conosci il tutto.
          Questo io conosco e sento,
          Che degli eterni giri,
          Che dell'esser mio frale,
          Qualche bene o contento
          Avrà fors'altri; a me la vita è male.
          O greggia mia che posi, oh te beata,
          Che la miseria tua, credo, non sai!
          Quanta invidia ti porto!
          Non sol perché d'affanno
          Quasi libera vai;
          Ch'ogni stento, ogni danno,
          Ogni estremo timor subito scordi;
          Ma più perché giammai tedio non provi.
          Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
          Tu sè queta e contenta;
          E gran parte dell'anno
          Senza noia consumi in quello stato.
          Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
          E un fastidio m'ingombra
          La mente, ed uno spron quasi mi punge
          Sì che, sedendo, più che mai son lunge
          Da trovar pace o loco.
          E pur nulla non bramo,
          E non ho fino a qui cagion di pianto.
          Quel che tu goda o quanto,
          Non so già dir; ma fortunata sei.
          Ed io godo ancor poco,
          O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
          Se tu parlar sapessi, io chiederei:
          Dimmi: perché giacendo
          A bell'agio, ozioso,
          S'appaga ogni animale;
          Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
          Forse s'avess'io l'ale
          Da volar su le nubi,
          E noverar le stelle ad una ad una,
          O come il tuono errar di giogo in giogo,
          Più felice sarei, dolce mia greggia,
          Più felice sarei, candida luna.
          O forse erra dal vero,
          Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
          Forse in qual forma, in quale
          Stato che sia, dentro covile o cuna,
          È funesto a chi nasce il dì natale.
          Giacomo Leopardi
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            Scritta da: Elisa Iacobellis

            Il tramonto della luna

            Quale in notte solinga
            sovra campagne inargentate ed acque,
            là 've zefiro aleggia,
            e mille vaghi aspetti
            e ingannevoli obbietti
            fingon l'ombre lontane
            infra l'onde tranquille
            e rami e siepi e collinette e ville;
            giunta al confin del cielo,
            dietro Appennino od Alpe, o del Tirreno
            nell'infinito seno
            scende la luna; e si scolora il mondo;
            spariscon l'ombre, ed una
            oscurità la valle e il monte imbruna;
            orba la notte resta,
            e cantando con mesta melodia,
            l'estremo albor della fuggente luce,
            che dinanzi gli fu duce,
            saluta il carrettier dalla sua via;
            tal si dilegua, e tale
            lascia l'età mortale
            la giovinezza. In fuga
            van l'ombre e le sembianze
            dei dilettosi inganni; e vengon meno
            le lontane speranze,
            ove s'appoggia la mortal natura.
            Abbandonata, oscura
            resta la vita. In lei porgendo il guardo,
            cerca il confuso viatore invano
            del cammin lungo che avanzar si sente
            meta o ragione; e vede
            ch'a sé l'umana sede,
            esso a lei veramente è fatto estrano.
            Troppo felice e lieta
            nostra misera sorte
            parve lassù, se il giovanile stato,
            dove ogni ben di mille pene è frutto,
            durasse tutto della vita il corso.
            Troppo mite decreto
            quel che sentenzia ogni animale a morte,
            s'anco mezza la via
            lor non si desse in pria
            della terribil morte assai più dura.
            D'intelletti immortali
            degno trovato, estremo
            di tutti i mali, ritrovar gli eterni
            la vacchiezza, ove fosse
            incolume il desio, la speme estinta,
            secche le fonti del piacer, le pene
            maggiori sempre, e non più dato il bene.
            Voi, collinette e piagge,
            caduto lo splendor che all'occidente
            inargentava della notte il velo,
            orfane ancor gran tempo
            non resterete: che dall'altra parte
            tosto vedrete il cielo
            imbiancar novamente, e sorger l'alba:
            alla qual poscia seguitando il sole,
            e folgorando intorno
            con le sue fiamme possenti,
            di lucidi torrenti
            inonderà con voi gli eterei campi.
            Ma la vita mortal, poi che la bella
            giovinezza sparì, non si colora
            d'altra luce giammai, né d'altra aurora.
            Vedova è insino al fine; ed alla notte
            che l'altre etadi oscura,
            segno poser gli Dei la sepoltura.
            Giacomo Leopardi
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              A Silvia

              Silvia, rimembri ancora
              quel tempo della tua vita mortale,
              quando beltà splendea
              negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
              e tu, lieta e pensosa, il limitare
              di gioventù salivi?

              Sonavan le quiete
              stanze, e le vie dintorno,
              al tuo perpetuo canto,
              allor che all'opre femminili intenta
              sedevi, assai contenta
              di quel vago avvenir che in mente avevi.
              Era il maggio odoroso: e tu solevi
              così menare il giorno.

              Io gli studi leggiadri
              talor lasciando e le sudate carte,
              ove il tempo mio primo
              e di me si spendea la miglior parte,
              d'in su i veroni del paterno ostello
              porgea gli orecchi al suon della tua voce,
              ed alla man veloce
              che percorrea la faticosa tela.
              Mirava il ciel sereno,
              le vie dorate e gli orti,
              e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
              Lingua mortal non dice
              quel ch'io sentiva in seno.

              Che pensieri soavi,
              che speranze, che cori, o Silvia mia!
              Quale allor ci apparia
              la vita umana e il fato!
              Quando sovviemmi di cotanta speme,
              un affetto mi preme
              acerbo e sconsolato,
              e tornami a doler di mia sventura.
              O natura, o natura,
              perché non rendi poi
              quel che prometti allor? Perché di tanto
              inganni i figli tuoi?

              Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
              da chiuso morbo combattuta e vinta,
              perivi, o tenerella. E non vedevi
              il fior degli anni tuoi;
              non ti molceva il core
              la dolce lode or delle negre chiome,
              or degli sguardi innamorati e schivi;
              né teco le compagne ai dì festivi
              ragionavan d'amore.

              Anche peria tra poco
              la speranza mia dolce: agli anni miei
              anche negaro i fati
              la giovanezza. Ahi come,
              come passata sei,
              cara compagna dell'età mia nova,
              mia lacrimata speme!
              Questo è quel mondo? Questi
              i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
              onde cotanto ragionammo insieme?
              Questa la sorte dell'umane genti?
              All'apparir del vero
              tu, misera, cadesti: e con la mano
              la fredda morte ed una tomba ignuda
              mostravi di lontano.
              Giacomo Leopardi
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Passero solitario

                D'in su la vetta della torre antica,
                Passero solitario, alla campagna
                Cantando vai finché non more il giorno;
                Ed erra l'armonia per questa valle.
                Primavera dintorno
                Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
                Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
                Odi greggi belar, muggire armenti;
                Gli altri augelli contenti, a gara insieme
                Per lo libero ciel fan mille giri,
                Pur festeggiando il lor tempo migliore:
                Tu pensoso in disparte il tutto miri;
                Non compagni, non voli,
                Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
                Canti, e così trapassi
                Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
                Oimè, quanto somiglia
                Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
                Della novella età dolce famiglia,
                E te german di giovinezza, amore,
                Sospiro acerbo dè provetti giorni,
                Non curo, io non so come; anzi da loro
                Quasi fuggo lontano;
                Quasi romito, e strano
                Al mio loco natio,
                Passo del viver mio la primavera.
                Questo giorno ch'omai cede alla sera,
                Festeggiar si costuma al nostro borgo.
                Odi per lo sereno un suon di squilla,
                Odi spesso un tonar di ferree canne,
                Che rimbomba lontan di villa in villa.
                Tutta vestita a festa
                La gioventù del loco
                Lascia le case, e per le vie si spande;
                E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
                Io solitario in questa
                Rimota parte alla campagna uscendo,
                Ogni diletto e gioco
                Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
                Steso nell'aria aprica
                Mi fere il Sol che tra lontani monti,
                Dopo il giorno sereno,
                Cadendo si dilegua, e par che dica
                Che la beata gioventù vien meno.
                Tu, solingo augellin, venuto a sera
                Del viver che daranno a te le stelle,
                Certo del tuo costume
                Non ti dorrai; che di natura è frutto
                Ogni vostra vaghezza.
                A me, se di vecchiezza
                La detestata soglia
                Evitar non impetro,
                Quando muti questi occhi all'altrui core,
                E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
                Del dì presente più noioso e tetro,
                Che parrà di tal voglia?
                Che di quest'anni miei? Che di me stesso?
                Ahi pentirommi, e spesso,
                Ma sconsolato, volgerommi indietro.
                Giacomo Leopardi
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Le ricordanze

                  Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
                  Tornare ancor per uso a contemplarvi
                  Sul paterno giardino scintillanti,
                  E ragionar con voi dalle finestre
                  Di questo albergo ove abitai fanciullo,
                  E delle gioie mie vidi la fine.
                  Quante immagini un tempo, e quante fole
                  Creommi nel pensier l'aspetto vostro
                  E delle luci a voi compagne! Allora
                  Che, tacito, seduto in verde zolla,
                  Delle sere io solea passar gran parte
                  Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
                  Della rana rimota alla campagna!
                  E la lucciola errava appo le siepi
                  E in su l'aiuole, susurrando al vento
                  I viali odorati, ed i cipressi
                  Là nella selva; e sotto al patrio tetto
                  Sonavan voci alterne, e le tranquille
                  Opre dè servi. E che pensieri immensi,
                  Che dolci sogni mi spirò la vista
                  Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
                  Che di qua scopro, e che varcare un giorno
                  Io mi pensava, arcani mondi, arcana
                  Felicità fingendo al viver mio!
                  Ignaro del mio fato, e quante volte
                  Questa mia vita dolorosa e nuda
                  Volentier con la morte avrei cangiato.
                  Né mi diceva il cor che l'età verde
                  Sarei dannato a consumare in questo
                  Natio borgo selvaggio, intra una gente
                  Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
                  Argomento di riso e di trastullo,
                  Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
                  Per invidia non già, che non mi tiene
                  Maggior di sé, ma perché tale estima
                  Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
                  A persona giammai non ne fo segno.
                  Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
                  Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
                  Tra lo stuol dè malevoli divengo:
                  Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
                  E sprezzator degli uomini mi rendo,
                  Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
                  Il caro tempo giovanil; più caro
                  Che la fama e l'allor, più che la pura
                  Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
                  Senza un diletto, inutilmente, in questo
                  Soggiorno disumano, intra gli affanni,
                  O dell'arida vita unico fiore.
                  Viene il vento recando il suon dell'ora
                  Dalla torre del borgo. Era conforto
                  Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
                  Quando fanciullo, nella buia stanza,
                  Per assidui terrori io vigilava,
                  Sospirando il mattin. Qui non è cosa
                  Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
                  Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
                  Dolce per sé; ma con dolor sottentra
                  Il pensier del presente, un van desio
                  Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
                  Quella loggia colà, volta agli estremi
                  Raggi del dì; queste dipinte mura,
                  Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
                  Su romita campagna, agli ozi miei
                  Porser mille diletti allor che al fianco
                  M'era, parlando, il mio possente errore
                  Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
                  Al chiaror delle nevi, intorno a queste
                  Ampie finestre sibilando il vento,
                  Rimbombaro i sollazzi e le festose
                  Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
                  Mistero delle cose a noi si mostra
                  Pien di dolcezza; indelibata, intera
                  Il garzoncel, come inesperto amante,
                  La sua vita ingannevole vagheggia,
                  E celeste beltà fingendo ammira.
                  O speranze, speranze; ameni inganni
                  Della mia prima età! Sempre, parlando,
                  Ritorno a voi; che per andar di tempo,
                  Per variar d'affetti e di pensieri,
                  Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
                  Son la gloria e l'onor; diletti e beni
                  Mero desio; non ha la vita un frutto,
                  Inutile miseria. E sebben vòti
                  Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
                  Il mio stato mortal, poco mi toglie
                  La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
                  A voi ripenso, o mie speranze antiche,
                  Ed a quel caro immaginar mio primo;
                  Indi riguardo il viver mio sì vile
                  E sì dolente, e che la morte è quello
                  Che di cotanta speme oggi m'avanza;
                  Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
                  Consolarmi non so del mio destino.
                  E quando pur questa invocata morte
                  Sarammi allato, e sarà giunto il fine
                  Della sventura mia; quando la terra
                  Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
                  Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
                  Risovverrammi; e quell'imago ancora
                  Sospirar mi farà, farammi acerbo
                  L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
                  Del dì fatal tempererà d'affanno.
                  E già nel primo giovanil tumulto
                  Di contenti, d'angosce e di desio,
                  Morte chiamai più volte, e lungamente
                  Mi sedetti colà su la fontana
                  Pensoso di cessar dentro quell'acque
                  La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
                  Malor, condotto della vita in forse,
                  Piansi la bella giovanezza, e il fiore
                  Dè miei poveri dì, che sì per tempo
                  Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
                  Sul conscio letto, dolorosamente
                  Alla fioca lucerna poetando,
                  Lamentai cò silenzi e con la notte
                  Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
                  In sul languir cantai funereo canto.
                  Chi rimembrar vi può senza sospiri,
                  O primo entrar di giovinezza, o giorni
                  Vezzosi, inenarrabili, allor quando
                  Al rapito mortal primieramente
                  Sorridon le donzelle; a gara intorno
                  Ogni cosa sorride; invidia tace,
                  Non desta ancora ovver benigna; e quasi
                  (Inusitata maraviglia! ) il mondo
                  La destra soccorrevole gli porge,
                  Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
                  Suo venir nella vita, ed inchinando
                  Mostra che per signor l'accolga e chiami?
                  Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
                  Son dileguati. E qual mortale ignaro
                  Di sventura esser può, se a lui già scorsa
                  Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
                  Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
                  O Nerina! E di te forse non odo
                  Questi luoghi parlar? Caduta forse
                  Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
                  Che qui sola di te la ricordanza
                  Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
                  Questa Terra natal: quella finestra,
                  Ond'eri usata favellarmi, ed onde
                  Mesto riluce delle stelle il raggio,
                  È deserta. Ove sei, che più non odo
                  La tua voce sonar, siccome un giorno,
                  Quando soleva ogni lontano accento
                  Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
                  Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
                  Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
                  Il passar per la terra oggi è sortito,
                  E l'abitar questi odorati colli.
                  Ma rapida passasti; e come un sogno
                  Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
                  La gioia ti splendea, splendea negli occhi
                  Quel confidente immaginar, quel lume
                  Di gioventù, quando spegneali il fato,
                  E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
                  L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
                  Se a radunanze io movo, infra me stesso
                  Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
                  Tu non ti acconci più, tu più non movi.
                  Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
                  Van gli amanti recando alle fanciulle,
                  Dico: Nerina mia, per te non torna
                  Primavera giammai, non torna amore.
                  Ogni giorno sereno, ogni fiorita
                  Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
                  Dico: Nerina or più non gode; i campi,
                  L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
                  Sospiro mio: passasti: e fia compagna
                  D'ogni mio vago immaginar, di tutti
                  I miei teneri sensi, i tristi e cari
                  Moti del cor, la rimembranza acerba.
                  Giacomo Leopardi
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