Di un padre moribondo scriveva Passeroni che al letto chiamò al bordo per mai aver tenzoni i dieci figlioletti che tutti tiene in petto. Dà un mazzo di bacchette legate strette strette.
Chi rompe, dice, il fascio e mi mostra possanza ogni ricchezza lascio e gli altri restan senza. Dall'uno all'altro così, il fascio passa ma niun pur forte e scaltro lo sfascia di sua possa.
Ad ogni figlio, allora, solo una verga dona, spezzatela, qui, ora e avrete il vostro dono. E tutte in un istante, l'ha scritto Passeroni le verghe furo infrante. Ecco or qui il dono:
Se lontan da voi le risse, cagion di debolezza le avrete regola fissa vi avrete una corazza. Se lontano le contese invece vi terranno per niun nemico è impresa donarvi pena e affanno.
Pure i debolissimi che pensavanvi pria forti saran per voi fortissimi se voi sarete smorti. L'ha scritto Passeroni, pur'altri prima ancora, io ne confermo il vero che ne son prigioniero
Non sono, pertanto, alcuno perché mi persi ognuno. Perciò tenete cura, Per evitare sciagura, Di rimanere tutt'uno.
Questa sera un po' depresso Resto al bordo del mio letto, sono incerto sul da fare: Dormire o qualcosa ideare? Ora il pendolo s'è desto E rintocca mezzanotte. La mia sposa è già dormiente, io mi stendo lentamente. Poi mi alzo, pian pianino, per lasciar tranquillo il nido, al mio tavolo m'accosto e comincio con far lesto la stesura di quest'inno pel vegliardo novantenne.
Zio Gustavo uomo retto Dal suo fare quasi perfetto Ha saputo col suo stile Superare il tempo ostile. Nel decorso di sua vita Ha sofferto e ha patito Ma ha saputo degnamente frenare cuore e mente. Tempo, oggi, dell'avvento Captato ha l'evento Radunando al suo cospetto Tutti quelli ch'à nel petto.
E con stima e con amore Dal profondo d'ogni cuore Noi porgiamo l'augurio In questo giorno di tripudio.
Quand'io, alla soglia della quarantina, lesto partisti, Padre, una mattina per la lustra via, verso il Ciel turchino perché ultimato avevi il tuo cammino.
Precoce il viaggio fu, senza ritorno ed io d'allora mi riguardo intorno nella vacua speme di vederti un giorno seduto, nell'ampio e grigio soggiorno.
Ma non udranno più mie orecchie il suono dei regali passi toccare il suolo che non più in terra, ma pel Cielo sono leggeri, al pari degl'uccelli volo.
Nell'alto Loco, tutto dorme e tace, e solo è serenità, amore e pace. Qui cattiveria è d'uccello rapace; e mai la terra ha conosciuto pace.
Resta, perciò, o Pà, in Casa del Signore donde lo puoi onorare a tutte l'ore.
In quel quarantatré, dai suoi albori di quante tristi cose furon'orrori, quante anormali cose ebber processo tutto in memoria bene m'è impresso. Per quanto m'opri e sproni l'intelletto su carta, certo, non può esser detto quel ch'ho vissuto e con mio occhio visto in quel periodo nero, infame e tristo.
Aleggiava miseria tutt'intorno e pane non era più in nessun forno; grano non era né farina o pasta e pochi i viveri distribuiti a testa. La tessera donava misero diritto ad accedere a poco, grame vitto; la fame in ogni dove era perenne, da sofferenza vecchio era trentenne.
Prodotto non donava più la terra; era periodo tristo, era la guerra! Manco erba era agli argini di via ch'er'estirpata che nascesse pria. Di medicina, poi, non era traccia e il patimento si leggeva in faccia. V'era, soltanto, del poco chinino che scarso lo teneva il tabacchino.
Nessuno al piede più avea calzare, nessuno panni aveva da indossare. Occhio scavato, zigomo sporgente, testa cadente, sguardo triste e assente. Scalza la donna, macilenta e stanca di cenci avea coperto spalla e anca; gobba teneva e non avea vent'anni, curve le spalle per i molti affanni.
Ovunque era sporcizia, era lordura, di scarafaggi piena ogni fessura; di cimice e di mosche era marea, pulci e pidocchi ahimè! Ognuno avea. Necessità del corpo fisiologica soddisfava in vaso di ceramica la donna, il maschio, con corruccio di cesso ne faceva ogni cantuccio.
Mesta sonava la campana a lutto per annunciare della guerra il frutto; quel tocco come freccia il cuor passava, piangea la donna, ahimè, chi non tornava. Per quella guerra dal passo stanco e lento altro Virgulto risultava spento e la speme che nutria la giovinetta era infilzata dalla baionetta.
Di fame sofferente e di stanchezza gente che perso avea casa e ricchezza giungeva con scarsi panni addosso ch'al sol vederla umano era commosso. Siamo sfollati, venivano dicendo, veniamo da lontano, veniamo da Trento. Avevamo mestiere professione e arte delle vostre miserie deh! Fateci parte.
Dacché la guerra su nostra Terra regna destino cattivo i nostri animi segna; dacché l'odio è calato come lampo manco nella preghiera avemmo scampo. E noi, che poveri eravamo non meno d'essi in un abbraccio a loro stemmo commossi, le nostre alle loro lacrime mischiammo e l'un con l'altro un solo corpo fummo.
Di militi a cavallo e giacca a vento era un esteso, grand'accampamento. Militi stavano a guardia per cancello e avevano disloco in area Polpicello, Portavano divise lacere a stellette e a pranzo sgranavano gallette con poco vitto ch'era in scatolame, per appagare i morsi della fame.
In questo quadro triste e desolante v'era qualcosa, però, di sublimante. Era quel canto che s'innalzava al cielo da dentro le baracche a verde telo. Gl'inni di Patria che i militi intonavano con orgoglio pel cielo veleggiavano e nell'udirli: Grandezza del Divino! Non era fame, nemmen tristo destino.
Lo rossore assomiglia ad un bel fiore; se lo coltivi, lo curi e l'hai nel cuore dal gambo alla corolla resta splendore e in ogni ora t'inebria del suo odore. Ma se nol curi, lo strappi e lo calpesti è qual morente dagli occhi spenti e pesti. E se pure lo raccogli tutto quanto mai riavrà la primiera bellezza del suo manto.
Così è l'uomo se decoro mantiene, se saldo lo rossore sempre detiene; ma se perde o oscura la sua faccia è pari al verme che sguazza nella feccia. E qui dire vorrei del topo di fogna che nella melma vive e la vergogna; ed è quell'uomo che col capo chino striscia qual biscia mentre fa l'inchino.
È faccia porcina, aspetto orripilante, nel letto dell'avverso trovasi d'amante e sol per qualche chicco di lenticchia tradisce la famiglia e la sua cerchia. Pezzente! Fare poteva solo l'inserviente ma lo portaro in cima: Ad assistente. E pure se insuperbito dell'alto rango la nostalgia lo rituffò nel fango...
Di limo in limo, ahimè, vaga strisciando ed or questo padrone or quel servendo ansimando ricerca lo caldo d'altro fuoco ma ognuno lo manda altrove: In altro loco. Stolto! Crede di fare dell'inciucio e non s'accorge d'esser nato ciuccio. Cerca di gareggiare con abili cervelli ma è solamente il re degl'asinelli.
Assicurando va d'essere paladino del cittadino e del suo destino. Nemmanco fosse il Grande Napolitano che nel costume è retto, integro, sano. Invece, il vero chiodo ch'ha in mente è rimanere lacché del presidente.
Dolce per l'aria un suono va vagando l'orecchio armoniosamente deliziando, come del mare l'onda fluttuante ora anelante, or più pacatamente.
Carezzevole un canto l'accompagna dal villaggio, pei boschi, alla campagna da zeffiro, piacevolmente, sostenuto come bianco Angelo in ali convenuto.
Vecchio canuto dagli occhi penetranti, barba a peli bianchi, mani tremanti, faccia triste e stanca, espressione mesta, la testa tra le mani, pensoso, resta.
Ripensa al tempo andato, per l'anima sprecato, ritorna agli anni d'oro, rivive le ballate, le serenate ch'ora non sublima, i dolci canti, i suoni, le passioni estive.
Suo comportar calato l'ha nel fondo, i dolci suoni che in aria mena i venti gli anni addolcendo, orecchi carezzando, per gl'anni ch'ora compie, sono strazianti.
Chi l'animo ha deterso d'ogni ruina e dell'altrui bene ha fatto sua dottrina sol egli letificare può del festeggiare giacché in petto è amore a spazieggiare.
Altri non può, l'animo ne ha rigetto; percorso non ha la via dal passo stretto che dritto mena al benevolo cospetto di Chi, per noi, trafitto ha il Santo Petto.