Le migliori poesie di Giosuè Carducci

Questo autore lo trovi anche in Frasi & Aforismi.

Scritta da: Silvana Stremiz

Eolia

Lina, brumaio torbido inclina,
Ne l'aer gelido monta la sera:
E a me ne l'anima fiorisce, o Lina,
La primavera.
In lume roseo, vedi, il nivale
Fedriade vertice sorge e sfavilla,
E di Castalia l'onda vocale
Mormora e brilla.
Delfo a' suoi tripodi chiaro sonanti
Rivoca Apolline co' nuovi soli,
Con i virginei peana e i canti
De' rusignoli.
Da gl'iperborei lidi al pio suolo
Ei riede, a' lauri dal pigro gelo:
Due cigni il traggono candidi a volo:
Sorride il cielo.
Al capo ha l'aurea benda di Giove;
Ma nel crin florido l'aura sospira
E con un tremito d'amor gli move
In man la lira.
D'intorno girano come in leggera
Danza le Cicladi patria del nume,
Da lungi plaudono Cipro e Citera
Con bianche spume.
E un lieve il séguita pe 'l grande Egeo
Legno, a purpuree vele, canoro:
Armato règgelo per l'onde Alceo
Dal plettro d'oro.
Saffo dal candido petto anelante
A l'aura ambrosia che dal dio vola,
Dal riso morbido, da l'ondeggiante
Crin di viola,
In mezzo assidesi. Lina, quieti
I remi pendono: sali il naviglio.
Io, de gli eolii sacri poeti
Ultimo figlio,
Io meco traggoti per l'aure achive:
Odi le cetere tinnir: montiamo:
Fuggiam le occidue macchiate rive,
Dimentichiamo.
Giosuè Carducci
Vota la poesia: Commenta
    Scritta da: Silvana Stremiz

    L'annuale della fondazione di Roma

    Te redimito di fior purpurei
    april te vide su 'l colle emergere
    da 'l solco di Romolo torva
    riguardante su i selvaggi piani:
    te dopo tanta forza di secoli
    aprile irraggia, sublime, massima,
    e il sole e l'Italia saluta
    te, Flora di nostra gente, o Roma.
    Se al Campidoglio non più la vergine
    tacita sale dietro il pontefice
    né più per Via Sacra il trionfo
    piega i quattro candidi cavalli,
    questa del Fòro tua solitudine
    ogni rumore vince, ogni gloria;
    e tutto che al mondo è civile,
    grande, augusto, egli è romano ancora.
    Salve, dea Roma! Chi disconósceti
    cerchiato ha il senno di fredda tenebra,
    e a lui nel reo cuore germoglia
    torpida la selva di barbarie.
    Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
    del Fòro, io seguo con dolci lacrime
    e adoro i tuoi sparsi vestigi,
    patria, diva, santa genitrice.
    Son cittadino per te d'Italia,
    per te poeta, madre de i popoli,
    che desti il tuo spirito al mondo,
    che Italia improntasti di tua gloria.
    Ecco, a te questa, che tu di libere
    genti facesti nome uno, Italia,
    ritorna, e s'abbraccia al tuo petto,
    affisa nè tuoi d'aquila occhi.
    E tu dal colle fatal pe 'l tacito
    Fòro le braccia porgi marmoree,
    a la figlia liberatrice
    additando le colonne e gli archi:
    gli archi che nuovi trionfi aspettano
    non più di regi, non più di cesari,
    e non di catene attorcenti
    braccia umane su gli eburnei carri;
    ma il tuo trionfo, popol d'Italia,
    su l'età nera, su l'età barbara,
    su i mostri onde tu con serena
    giustizia farai franche le genti.
    O Italia, o Roma! Quel giorno, placido
    tornerà il cielo su 'l Fòro, e cantici
    di gloria, di gloria, di gloria
    correran per l'infinito azzurro.
    Giosuè Carducci
    Vota la poesia: Commenta
      Scritta da: Silvana Stremiz

      Virgilio

      Come, quando sù campi arsi la pia
      Luna imminente il gelo estivo infonde,
      Mormora al bianco lume il rio tra via
      Riscintillando tra le brevi sponde;
      E il secreto usignuolo entro le fronde
      Empie il vasto seren di melodia,
      Ascolta il viatore ed a le bionde
      Chiome che amò ripensa, e il tempo oblia;
      Ed orba madre, che doleasi in vano,
      Da un avel gli occhi al ciel lucente gira
      E in quel diffuso albor l'animo queta;
      Ridono in tanto i monti e il mar lontano,
      Tra i grandi arbor la fresca aura sospira:
      Tale il tuo verso a me, divin poeta.
      Giosuè Carducci
      Vota la poesia: Commenta
        Scritta da: Silvana Stremiz

        Tedio invernale

        Ma ci fu dunque un giorno
        Su questa terra il sole?
        Ci fur rose e viole,
        Luce, sorriso, ardor?
        Ma ci fu dunque un giorno
        La dolce giovinezza,
        La gloria e la bellezza,
        Fede, virtude, amor?
        Ciò forse avvenne a i tempi
        D'Omero e di Valmichi:
        Ma quei son tempi antichi,
        Il sole or non è più.
        E questa ov'io m'avvolgo
        Nebbia di verno immondo
        È il cenere d'un mondo
        Che forse un giorno fu.
        Giosuè Carducci
        Vota la poesia: Commenta
          Scritta da: Blu Finch

          Ai Poeti

          O arcadi e romantici fratelli
          Ne la castroneria che insiem vi lega,
          Deh finite, per dio, la trista bega,
          E sturate il forame de' cervelli.
          Del vostro pianto crescono i ruscelli
          E i fiumi e i laghi sí che l'alpe annega,
          E stanco è il Gusto a batter chiavistelli
          A questa vostra misera bottega.
          Sentite in confidenza: i lepri e i ghiri
          Son lepri e ghiri, e non son mai leoni:
          Né Byron si rimpasta co' deliri,
          Né Shakespeare si rifà co' farfalloni,
          Né si fabbrica Schiller co' sospiri,
          Né Cristi e sagrestie fanno il Manzoni.
          Dopo tanti sermoni,
          O baironiani, o cristiani, o ebrei,
          Ed o voi che credete ne gli dèi,
          Lasciate i piagnistei;
          E, se più al mondo non avete spene,
          Fatevi un po' il servizio d'Origene.
          Giosuè Carducci
          Vota la poesia: Commenta
            Scritta da: Silvana Stremiz

            Avanti! Avanti!

            I
            Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone!
            L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione
            Indomito destrier.
            A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti,
            E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti
            L'urlo solingo e fier.
            I bei ginnetti italici han pettinati crini,
            Le constellate e morbide aiuole dè giardini
            Sono il lor dolce agon:
            Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori,
            La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori
            De le fanfare al suon;
            E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso,
            Il picciol collo inarcano e masticando il morso
            Par che rignino - Ohibò! -
            Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via
            Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia
            D'un corpo che invecchiò,
            Ripensando gli scalpiti dè corteggi e le stalle
            Dè tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle,
            Guarda con muto orror.
            E noi corriamo à torridi soli, à cieli stellati,
            Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati,
            Dietro un velato amor.
            Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico!
            Non vedi tu le parie forme del tempo antico
            Accennarne colà ?
            Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo
            Solcar come una candida nube l'estremo cielo?
            Oh gloria, oh libertà!

            II
            Ahi, dà prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore
            Nè superbi silenzii il tuo superbo amore.
            Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor
            Mi sfolgorar dà gelidi marmi nel petto un raggio,
            Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio
            E i lampi dè bianchi omeri sotto le chiome d'òr.
            E tutto ciò che facile allor prometton gli anni
            Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni,
            Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir.
            O immane statua bronzea su dirupato monte,
            Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte
            Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir.
            A più frequente palpito di umani odii e d'amori
            Meglio il petto m'accesero nè lor severi ardori
            Ultime dee superstiti giustizia e libertà;
            E uscir credeami italico vate a la nuova etade,
            Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade,
            E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va.
            Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata!
            Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata,
            Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulèn,
            E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia,
            Per rivelarti à popoli, con le taurine braccia,
            repubblica vergine, l'amazonio tuo sen.
            A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli,
            Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli
            Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior
            Ti rideva da l'anima la fede allor che il bello
            E biondo capo languido chinavi, e te, fratello,
            Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color;
            Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia
            Protendea la repubblica santa le aperte braccia
            Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol.
            Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni,
            Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni
            —Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol?
            Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente,
            E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente.—
            O popolo d'Italia, vita del mio pensier,
            O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo,
            Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo;
            E dè miei versi funebri t'incoroni il bicchier.

            III
            Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato !
            Obliar vò nel rapido corso l'inerte fato,
            I gravi e oscuri dí.
            Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto
            I falchi salutarono augurando ne l'alto
            E il bufolo muggí?
            Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano,
            Ove china su 'l nubilo inseminato piano
            La torre feudal
            Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi
            Veglia de le rasenie cittadi in mezzo à boschi
            Il sonno sepolcral,
            Mentre tormenta languido sirocco gli assetati
            Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati
            Verdi tra il cielo e il mar,
            Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno
            Saliva, le fenicie rosse vele nel seno
            Azzurro ad aspettar?
            Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera
            Torre di Donoratico a la cui porta nera
            Conte Ugolin bussò
            Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante,
            Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante
            Ne l'inferno ammirò?
            Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte
            Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte
            Novella il cacciator
            Quando al purpureo vespero su la bertesca infida
            I falchetti famelici empiono il ciel di strida
            E il can guarda al clamor.
            Là tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco;
            E la pietra pelasgica ed il tirreno speco
            Furo il mio solo altar
            E con me nel silenzio meridian fulgente
            I lucumoni e gli àuguri de la mia prima gente
            Veniano a conversar.
            E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada
            Che nè solchi de i secoli aperti con la spada
            Del console roman
            Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava;
            Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava,
            Comune italian,
            Tra le germane faide e i salmi nazareni
            Esultava nel libero lavoro e ne i sereni
            Canti dè mietitor.
            Chi di quell'orzo il pascesi, o nobile corsiero,
            Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero
            Nel sano petto il cor.
            Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso:
            Ecco, tutte le redini io ti libero al corso:
            Corriam, fiera gentil.
            Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti,
            Dè mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti;
            E a noi rida l'april,
            L'april dè colli italici vaghi di mèssi e fiori,
            L'april santo de l'anima piena di nuovi amori,
            L'aprile del pensier.
            Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta
            Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
            Cavallo e cavalier,
            O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione,
            Con l'occhio ancora gravido di luce e visione,
            Su 'l toscano mio suol,
            Ed al fraterno tumolo posi da la fatica,
            Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica
            Verso il morente sol.
            Giosuè Carducci
            Vota la poesia: Commenta