Scritta da: Silvana Stremiz

Non t'amo più

Non t'amo più... È un finale banale.
Banale come la vita, banale come la morte.
Spezzerò la corda di questa crudele romanza,
farò a pezzi la chitarra: ancora la commedia perché recitare!
Al cucciolo soltanto, a questo mostriciattolo peloso, non è dato capire
perché ti dai tanta pena e perché io faccio altrettanto.
Lo lascio entrare da me, e raschia la tua porta,
lo lasci passare tu, e raschia la mia porta,

C'è da impazzire, con questo dimenio continuo...
O cane sentimentalone, non sei che un giovanotto...
Ma io non cederò al sentimentalismo.
Prolungar la fine equivale a continuare una tortura.

Il sentimentalismo non è una debolezza, ma un crimine
quando di nuovo ti impietosisci, di nuovo prometti
e provi, con sforzo, a mettere in scena un dramma
dal titolo Ottuso "Un amore salvato".

È fin dall'inizio che bisogna difendere l'amore
dai "mai" ardenti e dagli ingenui "per sempre! ".
E i treni ci gridavano: "Non si deve promettere! ".
E i fili fischiavano "Non si deve promettere! ".

I rami che s'incrinavano e il cielo annerito dal fumo
ci avvertivano, ignoranti presuntuosi,
che è ignoranza l'ottimismo totale,
che per la speranza c'è più posto senza grandi speranze.

È meno crudele agire con sensatezza e giudiziosamente soppesare gli anelli
prima di infilarseli, secondo il principio dei penitenti incatenati.
È meglio non promettere il cielo e dare almeno la terra,
non impegnarsi fino alla morte, ma offrire almeno l'amore d'un momento.

È meno crudele non ripetere "ti amo", quando tu ami.
È terribile dopo, da quelle stesse labbra
sentire un suono vuoto, la menzogna, la beffa, la volgarità
quando il mondo falsamente pieno, apparirà falsamente vuoto.

Non bisogna promettere... L'amore è inattuabile.
Perché condurre all'inganno, come a nozze?
La visione è bella finché non svanisce.
È meno crudele non amare, quando dopo viene la fine.

Guaisce come impazzito il nostro povero cane,
raspando con la zampa ora la mia, ora la tua porta.
Non ti chiedo perdono per non amarti più. Perdonami d'averti amato.
Evgenij (Aleksandrovic) Evtusenko
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Solitudine

    Che vergogna andare al cinema da solo
    senza un amico, senza un'amica, senza moglie,
    là dove tutti gli spettacoli sembrano tanto brevi
    e tanto lunga la loro attesa.

    Che vergogna
    in questa interiore guerra dei nervi
    davanti alle coppiette beffarde del foyer
    in un angoletto, tutto rosso, masticare un pasticcino,
    come se ci fosse di che restar confusi...
    Noi,
    fuggendo la solitudine
    e l'angoscia
    ci buttiamo in qualsiasi compagnia,
    e così degli obblighi che fanno schiavi di amicizie senza senso
    ti perseguiteranno ftno alla tomba.

    Le amicizie si formano in modo assurdo:
    gli uni si danno al bere senza una ragione,
    gli altri non sono interessati che ai fronzoli e alle donnacce,
    e c'è pure chi
    sembra occupare il tempo in discussioni astratte,
    ma di fatto
    si somigliano tutti tra di loro...
    Molte son le forme della vanità!
    O l'una,
    o l'altra chiassosa compagniaa...
    Non saprei a quante di queste
    io sia riuscito a sfuggire!

    E come caduto in un nuovo tranello,
    sono riuscito a sfuggire,
    lasciandovi il pelo,
    sono sfuggito!
    Mi sei dinanzi, vuota libertà...
    Perché diavolo mi sei necessaria! Mi sei cara
    e insieme odiosa,
    come una moglie non amata e fedele.
    E tu, amata mia,
    come stai tu?
    Ti sei liberata delle tue vane preoccupazioni?
    A chi adesso appartengono i tuoi occhi strabici
    e le tue bianche, splendide spalle?
    Pensi certo che io mi vendichi,
    che in qualche parte mi precipiti in taxi,
    ma se anche lo facessi
    dove scenderei?
    Eppure non potrei liberarmi di te!
    Con me le donne si rinchiudono in sé,
    perché sentono
    d'essermi ora del tutto estranee.
    Abbandono la testa sulle loro ginocchia, ma non a loro,
    a te appartengo...
    Or non è molto sono stato da una
    in una brutta casupola di via Sennàja.
    Ho appeso il paltò a un misero attaccapanni.
    Sotto un abete spoglio da un lato, con le lampadine fioche,
    rilucendo con le sue pantofoline bianche,
    sedeva una donna, severa come una bambina.
    Avevo così facilmente ottenuto il permesso
    di venire,
    che ero sicuro di me
    e troppo inebriato, come oggi si usa
    e le avevo portato non fiori, ma vino.
    Ma tutto apparve molto più complicato...
    Ella taceva
    e modestamente due goccette trasparenti,
    due orecchini,
    brillavano sui suoi lobi rosati.
    E, come sofferente, guardandomi confusa,
    sollevando il suo corpo di fanciulla, mi disse con voce smorzata:
    "Vattene...
    È meglio di no... Lo vedo,
    non sei mio, ma suo... "
    Mi amava una ragazzetta
    dalle maniere rudi, da maschiaccio,
    con un ciuffetto sbarazzino
    e gli occhi trasparenti,
    pallida di paura e tenerezza.
    Eravamo in Crimea.
    C'era di notte un temporale
    e la ragazzina
    al bagliore dei lampi
    mi sussurrava:
    "Mio piccolo!
    Mio piccolo! "
    e mi copriva gli occhi col palmo della mano.
    Intorno tutto era spaventosamente solenne,
    il tuono
    e il gemito sordo del mare, quando all'improvviso ella,
    con una lucidità tutta femminile, mi gridò:
    "Non sei mio!
    Non sei mio! "
    Addio, mia amata!
    Io sono tuo, cupo
    e fedele,
    e la solitudine
    è la più fedele di tutte le fedeltà.
    E non importa se sulle mie labbra non fonde più
    la neve d'addio del tuo monchino.
    Grazie alle donne
    belle e infedeli
    per tutto ciò che è durato un istante, per quell'addio!
    Che non è un "arrivederci! ",
    perché, fiere come regine nella loro menzogna,
    ci regalano delle dolci sofferenze
    e i magnifici frutti della solitudine.
    Evgenij (Aleksandrovic) Evtusenko
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      Albore

      Amo quell'ora in cui il brillio delle stelle è fioco
      e respiro infantile a spegnerle è adatto
      e il mondo si fa chiaro, a poco a poco
      pur se con ciò, non insavisca affatto.

      Io più del mattino amo l'albore, quando,
      moscerino d'oro confondendo
      gli alberi, dai raggi trapassati,
      si alzano sulla punta dei piedi.

      Amo quell'ora in cui, durante la sgambata,
      al vociare di uccelli semidesti, tra i pini,
      sul cappello di funghi gridellini
      tremola lungo il bordo la rugiada.

      Essere un po' a disagio felice senza gente.
      Scaltra usanza il celare la propria felicità, ma
      fate che si soffermino i felici nell'albore, pure se
      dal mattino avrà inizio ogni calamità.

      Sono felice che la vita mia come irreale sia
      pur tuttavia allegra, coraggiosa realtà,
      che invidia non mi diede Dio, né animosità,
      che di fango coperto non sono, né di biasimo.

      Sono felice che un giorno sarò antenato
      di nipoti non più in gabbia. D'essere stato
      tradito e calunniato sono felice,
      meglio non è quando di te si tace.

      Sono felice dell'amore di donne e di compagni,
      le loro immagini sono le mie icone.
      Che sia ragazza russa la mia sposa sono felice,
      di chiudere i miei occhi è degna, ne avrò pace.

      Amare la Russia è felicità plurinfelice.
      Cucito a lei sono con le mie proprie fibre.
      Amo la Russia e il suo potere tutto vorrei amare,
      ma ne ho la naisea, vogliatemi scusare.

      Amo questo mio mondo verde-azzurro
      con le guance imbrattate di sangue.
      Irrequieto io stesso. Morirò non per odio,
      ma per amore insostenibile dal cuore.

      Non ho saputo vivere in modo irreprensibile, da saggio,
      ma voi con debito di colpa rammentatevi
      il ragazzino con albore di libertà negli occhi,
      luminosa più che vivido raggio.

      Essere imperfettissimo io sono,
      ma, scelta la mia ora preferita - il primo albore,
      Dio creerà di nuovo innanzi giorno
      gli alberi dai raggi trapassati,
      me stesso trapassato dall'amore.
      Evgenij (Aleksandrovic) Evtusenko
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Sono Gagarin, il figlio della terra

        Io sono Gagarin.
        Per primo ho volato,
        e voi volaste dopo di me.
        Sono stato donato
        per sempre al cielo, dalla terra,
        come il figlio dell'umanità.
        In quell 'aprile
        i volti delle stelle, che gelavano senza carezze,
        coperte di muschio e di ruggine,
        si riscaldarono
        per le lentiggini rossigne di Smolensk
        salite al cielo.
        Ma le lentiggini sono tramontate.
        Quanto mi è terribile
        non restare che un bronzo, che un'ombra,
        non poter carezzare né l'erba, né un bambino,
        né far scricchiolare il cancelletto d'un giardino.
        Da sotto la nera cicatrice del timbro postale
        vi sorrido io
        con il sorriso ch'è volato via.
        Ma osservate bene cartoline e francobolli
        e capirete subito:
        per l'eternità
        io sono in volo.
        Mi applaudivano le mani dell'intera umanità.
        La gloria tentava di sedurmi,
        ma no, non c'è riuscita.

        Sulla tetra mi sono schiantato,
        quella che per primo ho visto tanto piccola,
        e la terra non me l'ha perdonata.
        Ma io perdono la terra,
        sono figlio suo, in spirito e carne,
        e per i secoli prometto
        di continuare il mio volo
        al di sopra al di sopra dei bombardamenti,
        delle tele-radiomenzogne,
        che la stringono con le loro volute,
        al di sopra delle donnaccole che baldanzosamente
        ballano lo streep-tease
        per i soldati nel Viet Nam,
        al di sopra della tonsura
        del frate
        che vorrebbe volare, ma è imbarazzato dalla sottana,
        al di sopra della censura
        che nella sua tonacaccia, inghiottì in Spagna le ali dei poeti...

        C'è chi
        è in volo
        nel simun vorticoso di stelle.
        C'è chi
        si dibatte
        nella palude da se stesso voluta.
        Uomini, o uomini
        ingenui spacconi,
        pensate: non vi fa paura
        alzarvi dal Capo che porta il nome dell'uomo che avete ucciso?
        Vergognatevi di questo baccano da mercato!
        Voi siete gelosi,
        rapaci,
        vendicativi.
        Come potete cadere tanto in basso se volate tanto in alto?!

        Io sono Gagarin, figlio della Terra,
        figlio dell'umanità:
        sono russo, greco e bulgaro,
        australiano e finlandese.

        Vi incarno tutti
        col mio slancio verso i cieli.
        Il mio nome è casuale,
        ma io non sono stato per caso.

        Mentre la terra s'insozzava
        di vanità e di peccato,
        il mio nome cambiava,
        ma l'anima no.

        Mi chiamavano Icaro.
        Giacqui nella polvere, nella cenere.
        Mi aveva spinto verso il sole
        il buio della terra.

        La cera si sciolse, spargendosi qua e là.
        Caddi senza salvezza,
        ma un pizzico di sole
        rimase stretto nella mia mano.

        Mi chiamarono servo.
        La rabbia mi pesava sulla schiena
        mentre, ritmando il tempo con le mani e coi piedi,
        danzavano sul mio corpo.

        Io caddi sotto le bastonate,
        ma, maledicendo la servitù,
        mi costruii delle ali coi bastoni
        dei miei torturatori!
        Ad Odessa fui Utockin.
        Fece uno scarto il duca,
        quando al di sopra dei suoi pantaloncini a piffero
        si levò un cavallo volante.

        Sotto il nome di Nesterov
        girando sopra la terra,
        feci innamorare la luna
        col mio giro della morte.

        La morte fischiava sulle ali.
        È una virtù disprezzarla
        e con Gastello imberbe
        mi gettai in volo sul nemico.

        E le ali temerarie
        ardendo come un rogo, hanno protetto,
        voi che foste allora ragazzi,
        Aldrin, Collins, Armstrong.

        E, sicuro della speranza
        che gli uomini sono un'unica famiglia,
        dell'equipaggio di Apollo
        invisibile io ero.

        Mangiammo dai tubetti,
        avremmo brindato in viaggio
        come sull'Elba,
        ci abbracciammo sulla Galassia.

        Il lavoro procedeva senza scherzi.
        Era in gioco la vita
        e con lo stivale di Armstrong
        io scesi sulla Luna.
        Evgenij (Aleksandrovic) Evtusenko
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Al mio cane

          Ficcando il naso nero nel vetro,
          il cane aspetta, aspetta sempre qualcuno.

          Infilo la mano nel suo pelo,
          io pure aspetto qualcuno.

          Ricordi, cane, c'è stato un tempo
          quando una donna abitava qui.

          E chi era essa per me?
          Forse una sorella, una moglie forse,

          e forse, talvolta, sembrava una figlia
          a cui dovevo il mio aiuto.

          Essa è lontana... Ti sei fatto zitto.
          Più non ci saranno altre donne qui.

          Mio bravo cane, sei bravo in tutto,
          ma che peccato che tu non possa bere!
          Evgenij (Aleksandrovic) Evtusenko
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Tu non hai affatto capito

            Tu non hai affatto capito,
            mia coscienza esigente, che è solo per debolezza
            se adesso ho bisticciato con te.

            E non hai affatto capito,
            quando con disprezzo ti sei vendicata,
            che causa di debolezza
            non impudenza fu - stanchezza.

            E non mi hai capito,
            e forse io non ho capito te,
            quando ti ho porto la mano
            e tu non mi hai porto la tua.

            Ma molto bene hai capito
            che è la disperazione a portarci
            alla perdita del confine, fatale,
            tra le forze del bene e del male...
            Evgenij (Aleksandrovic) Evtusenko
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              Ribes nero

              Occhi neri di ribes nero
              come dense gocce della notte
              guardano e inconsapevoli domandano
              o di qualcuno o di qualcosa.

              Caverà lesto il tordo saltellante
              gli occhi neri di ribes nero,
              ma i gorghi del vortice conservano memoria
              di qualcuno o di qualcosa.

              Non penetrate nella memoria delle amate.
              Temete quei vortici abissali, perfino
              la vecchia tua blusa, non di te si ricorda, ma
              di qualcuno o di qualcosa.

              E dopo morto vorrei onestamente sempre vivere
              in te, come qualcuno no, come qualcosa,
              che ti rammenti, linea d'orizzonte,
              solo qualcosa, solo qualcosa.
              Evgenij (Aleksandrovic) Evtusenko
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Vanno i fiocchi candidi

                Vanno i fiocchi candidi
                come scivolando su un filo...
                Vorrei vivere, vivere al mondo,
                ma, certo, non si può.

                Di qualcuno le anime, dissolvendosi
                laggiù, senza traccia,
                come neve candida
                salgono al cielo dalla terra.

                Vanno i fiocchi candidi...
                E io pure me ne andrò.
                Non mi rattrista la morte
                e l'immortalità non m'aspetto.

                Non credo nel miracolo.
                Non sono la neve, ne una stella,
                e mai più sarò, mai, mai più.

                E, peccatore che sono, penso:
                chi dunque sono stato,
                nella mia vita precipitosa
                che cosa ho amato più della vita?

                Ho amato la Russia
                con tutto me stesso:
                i suoi fiumi in piena
                e coperti di ghiaccio,

                il respiro delle sue casette,
                il respiro delle sue pinete,
                il suo Puskin, il suo Stenka
                e i suoi vecchi.

                Se la vita non è stata dolce,
                non me la son presa troppo.
                Che fa se ho vissuto da incoerente:
                per la Russia ho vissuto.

                Pieno di ansie segrete
                io mi struggo nella speranza
                di avere un tantino
                aiutato la Russia

                Che essa mi dimentichi pure,
                senza affanno per me;
                ma che essa rimanga
                per sempre, per sempre...

                Vanno i fiocchi candidi,
                come andarono sempre:
                al tempo di Puskin e di Stenka,
                come andranno dopo di me.

                Vanno i grandi fiocchi
                di un biancore accecante,
                di me e degli altri
                spazzando via le tracce...

                Non ho il potere di farmi immortale,
                ma ho una sola speranza:
                se la Russia vivrà,
                con lei vivrò anch'io.

                1965.
                Evgenij (Aleksandrovic) Evtusenko
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